di Orthelius
Appare certo significativo, nell’ottica del tema che ci apprestiamo a trattare, che Giordano Bruno, mago naturale par excellence, si qualificasse “mago” in accordo al Libro V dei Τοπικά di Aristotele, quello riservato – nel complesso dei ragionamenti sulla dialettica – alla figura argomentativa della “proprietà”: «il proprio è ciò che viene predicato secondo verità».
L’enunciare il “proprio”, per Aristotele, equivale infatti a stabilire una certa differenza tra qualcosa e qualcos’altro (nel senso di attribuire a ciascuno il suo). In questo senso – riteneva il Nolano – l’evocazione del termine “mago” era da inquadrarsi in un’accezione del tutto diversa, e “propria”, rispetto alle più facili significazioni popolaresche, da lui giudicate false e ingannatrici.
La magia, per Bruno, non era affatto quella volgare, frutto di ignoranza e superstizione, bensì il perfezionamento e il compimento di tutte le scienze naturali.
È quindi seguendo questo filo logico che ci apprestiamo a indagare il fondamento di quel complesso sapienziale che va sotto il nome di “ermetismo magico”, esso costituisce il substrato sul quale fioriranno, in epoca rinascimentale, le idee della nuova filosofia umanistica, che marcheranno una nuova e peculiare sensibilità nella visione del mondo.
Magia e filosofia ermetica
Fatta questa premessa, iniziamo con il rilevare che l’accostamento tra magia ed ermetismo è piuttosto sottovalutato al di fuori dell’ambito accademico; questo perché dell’ermetismo se ne conosce molto di più la parte “filosofica” rispetto a quella “magico-operativa”. Una ragione potrebbe rintracciarsi nella maggiore circolazione dei concetti teurgici di stampo tardo neoplatonico; concetti che col tempo hanno finito per soppiantare ogni altro apparato magico-operativo.
Detto ciò, è vero invece che molta della letteratura che circolava sulla magia intorno alla metà del XII secolo – cioè in pieno basso Medioevo – era proprio di origine ermetica; attribuita direttamente ad Ermete Trismegisto o a personaggi a lui collegati come Toz Greco, Germa Babilonese o il protoceltico Beleno.
Il “Tre volte grandissimo” nasce dalla sintesi del dio ellenico Hermes con il dio egizio Thot, affini per attributi e funzioni, costituendo il prodotto sincretico dell’incontro tra la cultura greca e quella egizia.
Ritenuto coevo di Mosè, e depositario di un sapere antichissimo, in realtà Ermete non è mai esistito. Ciò non toglie che resti comunque un punto di riferimento importante per l’immaginario di una folta schiera di autori medievali.
Dicevamo poc’anzi delle due declinazioni dell’ermetismo, quella teologico-filosofica e quella magico-esoterica: esse si mostrano disgiunte, soprattutto perché differente ne è la loro scaturigine storica. In epoca più antica, prevalentemente nell’Egitto greco-romano, tra il regno tolemaico ed il I secolo d.C., vengono redatti in lingua greca testi eterogenei per argomento, forma ed epoca di produzione, ma accomunati dall’identico riferimento ad Ermete e dall’attenzione all’astrologia, alla magia, all’alchimia e alle scienze occulte in genere. Mentre in epoca successiva, cioè tra il II ed il III secolo d.C. (quindi già abbondantemente in era cristiana), e pressappoco nello stesso contesto geografico (esteso ai territori siriani), si assiste alla redazione di opere dal contenuto teologico-filosofico, in cui le disputazioni – abbandonate quasi del tutto le tematiche precedenti – iniziano a vertere su Dio, sul mondo, sull’uomo ed il suo destino, sulle vie di salvezza. Sempre con argomentazioni variamente “rivelate” da Ermete.
Tra queste due espressioni dell’ermetismo, non esistono – per la verità – molti legami comuni: i testi magici sono per lo più privi di una contestualizzazione dottrinale, mentre i testi filosofici contengono scarse allusioni alla magia. A questa considerazione fanno eccezione l’Asclepius e la Kore Kosmou (La Pupilla del cielo). In quest’ultima il ricorso a passaggi alchemichi da parte del Demiurgo, durante la creazione dell’universo, è significativo di un “sentimento” che decisamente collocherà l’ermetismo nel cuore dello Zeitgeist rinascimentale.
A questa prima frattura, già di per sé significativa, si aggiunge un’ulteriore complicazione esegetica, che mostra ancor di più il carattere scivoloso e multiforme dell’ermetismo.
Infatti, anche sul versante dottrinario gli Hermetica filosofici si possono distinguere in due filoni tra loro addirittura antitetici: pessimismo circa l’origine e le cose del mondo, dualismo e trascendenza da un lato (quello più squisitamente gnostico/manicheo), ottimismo, non dualismo ed immanenza dall’altro. Un versante altrettanto genuino, considerando – soprattutto – che proprio nell’Asclepius il mondo sensibile e l’uomo sono descritti come “belli e buoni”).
Sintetizzando: in alcuni discorsi dell’ermetismo il mondo è valutato come “ricettacolo di tutti i mali”, quindi malvagio; in altri, al contrario, funzionale – in positivo – alla stessa divinità creatrice. Va da sé che nel primo caso l’uomo è incitato alla fuga, al disprezzo e all’abbandono delle cose terrene, mentre nel secondo caso egli può sperare di raggiungere Dio attraverso la cura e la contemplazione del cosmo, immaginato come specchio della bontà divina.
Sono due teologie, due cosmogonie, due antropologie non sovrapponibili, che finiscono per determinare due percorsi soteriologici (soteriologico è ciò che ha a che fare con la concezione della salvezza) opposti.
Eppure, è necessario non soffermarsi su questa contraddizione: certo, il “Tutto/Uno” della tradizione ermetica rivela la dimensione più “rilassata” del mito, con un evidente solvens degli opposti ed un coagulans degli stessi insito nella medesima realtà ontologica (cioè la realtà dell’essere in quanto tale), ma è indicativo che la stessa tradizione sia attraversata costantemente anche da un’altra dimensione, quella gnostica, per nulla distesa ed anzi tribolata dalle potenze arcontiche (diciamo pure “demoniache”!), fino a quella faticosa “resurrezione” dell’Anthropos teleios (l’Uomo completo) capace di solcare – come nel Rebis alchemico – i confini liminali degli arcani segreti della fabbricazione dell’“oro-lapis”.
In quest’ultimo caso la complexio oppositorum è ben lontana dal costituire un terreno “già dato”, ma definisce quella “funzione trascendente” – che potremmo definire anima – capace, una volta “individuata” (per utilizzare un linguaggio junghiano) di “inchiodare l’ego tra i due ladroni”, rivelando la trasmutazione del serpente biblico nell’ΙΧΘΥΣ (il “pesce”) paleocristiano. Così svelando anche il vero significato della “redenzione” del Χριστός, che altro non è se non il disvelamento del potere noetico insito nell’uomo, ovvero la capacità dell’atto conoscitivo, liberato dalle contingenze egoiche del desiderio, di farsi efficacemente atto creativo.
Ed è proprio qua che le due “vie” della tradizione ermetica trovano la loro sintesi, convergendo in quel legame d’amore dove il Tutto è nell’Uno quanto questo è profuso nel Tutto. Un concetto sul quale poggerà anche l’apparato teorico della magia naturale.
L’ermetismo magico
Tanto eterogenea è la produzione dell’ermetismo filosofico greco quanto polimorfa è quella dell’ermetismo operativo in traduzione latina, la quale si diffonde in epoca medievale e raggruppa sotto il nome di Ermete e dei suoi adepti scritti diversi, non sempre di facile catalogazione. Un esempio ci viene dal Liber angelicus vel occultus Hermetis, che nonostante l’attribuzione ermetica è in realtà ascrivibile interamente alla tradizione ebraico-salomonica.
Ma riferivamo di testi dalla storia redazionale spesso complessa: valga per tutti l’esempio del Liber de stellis beibeniis, che tratta delle influenze delle stelle fisse al momento della nascita, il quale circola appunto in versione latina, come traduzione dall’arabo dell’originale greco, e in versione ebraica, con il titolo di Sefer Hermes.
Sono molte le opere astrologiche riferite ad Ermete: al testo appena citato possiamo aggiungere il Centiluquium, una compilazione di cento aforismi astrologici, stavolta di origine araba, che costituisce, dopo l’Asclepius, il testo ermetico più diffuso nel Medioevo.
Di contenuto astrologico vasto, unito a rilevanti implicazioni alchemiche, è poi lo scritto canone dell’ermetismo medievale, la famosa Tabula smaragdina (La Tavola di smeraldo), tradizionalmente incisa dallo stesso Trismegisto su una lastra verde con la punta di un diamante, quindi chiusa in una cripta. La ritroviamo, più prosaicamente, a conclusione del De secretis naturae et occultis rerum causis dello pseudo Apollonio, trasmessa al mondo latino in tre versioni, a partire da tre fonti arabe distinte.
A queste opere se ne aggiungono altre sulle virtù magiche e terapeutiche di animali, piante e pietre, come le Kyranides di origine bizantina (testo peraltro poco considerato a causa del suo linguaggio folkloristico), in cui sono presentati tre bestiari, secondo l’ordine alfabetico greco, e le indicazioni per il confezionamento di pozioni dalle proprietà magiche e mediche.
Un testo botanico solo incidentalmente “magico” è invece il Compendium aureum, che si vuole rinvenuto a Troia, riguardante le proprietà terapeutiche di sette erbe, tra cui il girasole, il marrubio, la sassifraga la peonia e la salvia. L’opera precisa il giorno e l’ora di raccolta, le modalità di preparazione e le sostanze che vanno aggiunte ad ogni principio semplice per ottenere il rimedio desiderato (prevalentemente contro l’itterizia, le coliche, i morsi velenosi, l’epilessia, etc.)… Si diceva dei riferimenti “magici”: essi sono rintracciabili nei presunti effetti miracolosi di alcune delle erbe descritte, come la sassifraga, che permetterebbe (attraverso una particolare ricetta) di vedere gli spiriti e la salvia, che (sempre in composto) sarebbe capace di donare l’invisibilità.
Esistono poi Trattati in cui le piante sono messe in relazione con i dodici segni zodiacali, con i sette pianeti e addirittura con i trentasei decani (ossia le trentasei stelle del cielo a cui era associata dagli antichi egizi un’ora della notte, a seconda del periodo dell’anno, e che in età tolemaica persero il loro utilizzo come marcatori temporali virando verso l’uso astrologico).
È del tutto evidente in queste trattazioni il concetto di melothesia zodiacale, la quale, fondata sull’analogia tra mondo e uomo (quindi tra macrocosmo e microcosmo), era teoria antichissima, comune all’astrologia egizia, greca, araba, latina e anche indiana, essendo in essa descritta la segreta corrispondenza di ogni organo e parte del corpo umano con un particolare segno zodiacale.
L’idea principale da cui promanava questa credenza è presto detta: la convinzione che gli dèi antichi fossero in realtà stelle, viste come esseri spirituali capaci di intervenire sul mondo terrestre attraverso influenze e correlazioni. Ed è proprio in questo modo che assistiamo alla sopravvivenza dei miti e delle divinità pagane nel Medioevo, come forme astrali, almeno fino al Rinascimento, quando molte esperienze rafforzeranno, addirittura, anziché affievolire, proprio il loro carattere astrologico, ma con un differente significato che poi andremo ad esaminare.
Intanto osserviamo che la teoria del macrocosmo e del microcosmo ha antefatti che si perdono all’origine della storia. Dell’“uomo-circolo” o “uomo zodiaco”, in occidente, si ha testimonianza compiuta a partire dal De architectura di Vitruvio e poi nel tardo antico, con rappresentazioni dell’essere umano primordiale come uguale nell’altezza e nella larghezza, avente per occhi il sole e la luna, per denti le stelle, per ventre l’oceano, per capelli le piante, per midollo i minerali… e con la testa raffigurante la parte più alta del cielo.
Oltre agli erbari, ai testi di medicina astrologica e ai lapidari, fanno parte dell’ermetismo tecnico, tradotto in latino, anche scritti che potremmo definire sui generis… come il Liber de spatula, sulla scapulomanzia (una tecnica divinatoria che pretendeva di leggere il futuro nelle scapole di animali sacrificati) o la Lectura geomanziæ, che utilizzava invece dei punti tracciati sulla sabbia (i quali, uniti tra loro, andavano a formare le figure che il geomante interpretava per dare risposta ai vari quesiti).
I talismani e gli anelli ermetici
Molto si potrebbe dire, anche, circa i Trattati sui talismani e sugli anelli ermetici, Volumi che – non a caso – hanno sempre suscitato un certo scalpore. Questo differente accoglimento rispetto alle opere che abbiamo appena incontrato – opere tutto sommato “bianche”, cioè dalle intenzioni benefiche e positive, in taluni casi perfino “altruistiche” – è dovuto al diverso tenore degli scritti ora in questione, spesso appartenenti al lato “oscuro” della magia ermetica.
Tradotti dall’arabo in latino, essi si allontanano con maggiore evidenza dal solco greco dell’ermetismo classico, occhieggiando a tematiche più proprie al mondo orientale.
La maggior parte di questi libelli è citata nello Speculum astronomiæ, testo steso intorno alla metà del XIII secolo e suddiviso in diciassette capitoli brevi. In esso si parla di molte pratiche esplicitamente condannate dalla Chiesa, ma non solo. Infatti, tanto la realizzazione di talismani quanto quella di anelli richiedeva un mix di conoscenze tecniche, astronomiche e psicofisiche che andavano a caratterizzare il mago come un soggetto fuori dal comune.
Nel Liber septem planetarum ex scientia Abel vien detto che chiunque voglia praticare l’arte magica deve trovarsi in un luogo purissimo ed essere immacolato. Da ciò la prassi di abluzioni, suffumigi, digiuno notturno, genuflessioni e, naturalmente, astinenza sessuale; oltre alla messa in essere di tutte quelle pratiche atte alla purificazione (anche spirituale) dell’ambiente di lavoro e alla osservanza delle tempistiche dettate dalle varie configurazioni celesti. Tutte operazioni ed attenzioni che prese nel loro complesso concorrevano a conferire al mago un carisma sovrannaturale ed un’aurea di saggezza, ma anche una certa equivocità.
Quest’ultima considerazione può apparire strana a noi “moderni”, poiché quanto descritto non può essere in alcun modo classificato come “abominevole”, ma tali erano considerate le pratiche suddette, poiché nella loro essenza marcatamente pagane, quindi – per ciò stesso – demoniache! E così restavano anche quando le invocazioni erano rivolte a spiriti planetari ermetici, entità astrali collegate ad un segno zodiacale o custodi celesti identificati come angeli (lunghissime le liste dei loro nomi).
Lo spiega bene Alberto Magno, uno dei più grandi teologi del Medioevo, quando afferma che oltre ad indurre all’idolatria e all’astrolatria, la presenza di tali indicazioni astrologiche spaventava di meno il mago, inducendolo a credere di utilizzare la natura nella sua accezione più divina, quando, al contrario, proprio questo paravento permetteva ai demoni di utilizzare – loro! – il mago.
Va da sé, dunque, che non era poi tanto lo strumento – il talismano, l’anello o l’immagine – ad essere “buono” o “cattivo”, ma il suo impiego. E a nulla potevano valere le tante formule ermetiche che dichiaravano che l’effetto ottenuto fosse conforme alla volontà di Dio, poiché questa si sarebbe comunque scontrata con il libero arbitrio dell’utilizzatore. Un arbitrio tanto più pericoloso in presenza di manufatti in grado di seminare discordie, indurre passioni amorose al di là della volontà dei destinatari o provocare malattie incurabili senza possibilità d’antidoto.
Il fondamento teorico della magia ermetica
Dopo aver riferito a grandi linee i contenuti della magia ermetica possiamo concludere due cose: la prima è che questi non sono difformi da altre pratiche diffuse nel Medioevo, in quanto la produzione di talismani, anelli, immagini, sigilli, formule ed iscrizioni faceva parte di un armamentario ed equipaggiamento “magico” comune a tanti operatori medievali ; la seconda, invece, è che i contenuti ermetici contraddistinguono fortemente le attività elencate, proprio per il loro peculiare fondamento teorico-filosofico. Che poi è il costante richiamo all’autorevolezza e spessore dottrinale del Trismegisto, la cui sapienza era interamente versata nell’Asclepius.
E nell’Asclepius da un lato la sorprendente somiglianza di contenuti con la teologia cristiana: un Dio unico, eterno, sommamente retto, creatore del mondo e dell’uomo, ideatore degli dèi celesti (come il dio cristiano delle potenze angeliche), dall’altro elementi certamente dissonanti: poiché all’uomo è data la possibilità di essere a sua volta “artefice” di dèi terreni e evocatore di creature elementali, al fine di servirsene.
Così nei “simulacri”, catalizzatori dei poteri magici conferiti agli idoli dalle potenze intermedie, capaci di attirare – tramite l’utilizzo di “cose” particolari – gli spiriti al loro interno, entità che in questo modo finiscono per essere soggiogate dalla volontà del “teurgo-mago”.
E al mago tutto è permesso! Certo, ma al mago riferito poc’anzi: al devoto, all’illuminato, al sapiente di tutte le verità. Ma nel concreto, quali garanzie della presenza in questi uomini di siffatte virtù etiche e spirituali?
Ebbene, nell’ermetismo tale garanzia è lo stesso fondamento teorico dell’Arte, perché l’“operatore” non diviene gubernator terræ a caso, ma perché ha compiuto in sé quella complexio oppositorum riferita prima, assolvendo così, in modo esemplare, il compito che Dio ha affidato all’intero genere umano.
Esercitare la signoria sul creato, inoltre, presupponeva non solo di essere dotati di capacità conoscitiva (far tutt’uno, cioè, con l’armonia del mondo e le sue leggi, al fine di ricrearle incessantemente con l’atto magico) ma di essere parimenti avvezzi alla comprensione “religiosa” e morale delle cose. Sapienza, questa, alla quale non può considerarsi estranea la virtù della “memoria”, che non è certo assimilabile all’esercizio dell’esperienza individuale e limitata, ma costituisce lo sforzo congiunto e cumulabile (perciò non esente da errori e fallimenti) con cui l’umanità (o una parte di essa) arriva a scoprire la trama del cosmo, le leggi che ne regolano l’ordine e l’accadere, la dipendenza delle cose terrene da quelle celesti…
In questo modo la magia non è una conoscenza rivelata, né un dono divino concesso da Dio ad una élite di “perfetti”, ma un punto d’approdo potenzialmente aperto ad ogni uomo intenzionato a seguirne la Via. Un cammino, nondimeno, certamente iniziatico.
Dalla magia ermetica alla magia naturale
Con il Rinascimento si apre una stagione diversa, che cerca di assumere su tutte le precedenti questioni una nuova connotazione concettuale. È in questo periodo che la “magia ermetica” si va trasformando nella nuova “magia naturale”, in cui l’aggettivo “naturale” si chiarisce soprattutto in senso “negativo”, vale a dire per ciò che non è e non vuole essere.
La magia naturale «non si fonda sul culto dei demoni», afferma Marsilio Ficino, cioè non vuole più identificarsi con tutto quel corredo di “statue animate” e potenze intermedie (soprattutto astrali) proprie alla teurgia orfica e neoplatonica, così come fusasi nell’ermetismo operativo.
La magia naturale, infatti, si prefigge di impiegare e sfruttare i poteri e le proprietà spontaneamente nascoste nelle cose, anche se inaccessibili ai nostri sensi.
È dunque la natura stessa a divenire “maga”, ossia prodigiosa, e il portentoso è ricondotto alle sue stesse leggi. Il mago, allora, diventa colui che conosce l’ordinamento segreto del mondo e le virtù occulte delle cose, e sa usare il tutto a proprio vantaggio. La magia, in questo modo, si fa ministra naturæ, e il mago diventa un Sapiente, non più semplice “factor mundi” ma conoscitore del cosmo.
Tuttavia, se il manto è nuovo non è certamente smantellato tutto l’edificio precedente. I materiali a cui la magia rinascimentale attinge sono per la maggior parte quelli antichi e medievali, molti dei quali già condannati come negromantici. E certi testi… a dirla tutta sono in realtà compilazioni di fonti assai più antiche (è il caso, ad esempio, del De occulta philosophia di Cornelio Agrippa).
Alla tensione tra vecchio e nuovo si cerca di porre rimedio in ogni modo. Prendiamo i talismani: nel De vita coelitùs comparanda Marsilio Ficino, riferendo di essi, non può fare a meno di notare che un intento razionale è alla base della loro composizione, perché la presenza di figure, caratteri ed iscrizioni rimanda all’esistenza di intelligenze spirituali in grado di interpretarne il significato e, eventualmente, realizzarne gli effetti. Ma ciò non può essere (almeno per i nuovi canoni)! Perciò Ficino conclude che sia l’azione di attrito dell’incisione e la sua particolare forma a provocare l’effetto magico…
Quindi: azione fisica e “conseguenza naturale” (seppure occulta) spiegherebbero l’efficacia del talismano, il cui carattere “destinativo” muta così in favore di un più “realistico” (ma inesprimibile!) influsso astrale contingentato.
A questa sensibilità, pur prevalente, se ne contrapporrà comunque un’altra, carsica ma insopprimibile all’interno della fiumana umanistico-rinascimentale, rappresentata dalla cosiddetta “magia cerimoniale”. In essa il sapere magico è sì naturale, ma l’operato del mago è più spregiudicato, sebbene sempre “ermeticamente” ancorato alla purezza di un’alta concezione spirituale.
Conoscitore del vero Dio, e dei modi appropriati con cui rendere culto alla divinità, il “vero mago” opera con le potenze angeliche e non agisce in contrasto con la volontà celeste. Anzi, egli esprime pienamente la natura che Dio ha assegnato all’uomo: la capacità “divina” di dominare la natura e di intervenire sulle strutture più profonde e remote che reggono l’universo. In questo modo gli straordinari effetti che il mago realizza, lungi dall’essere sottratti all’utilizzo degli “spiriti”, sono però “naturali”, perché rendono testimonianza della sua fede e della benedizione di Dio.
La magia “bruniana”
Quello fin qua tracciato è il contesto da cui prende le mosse l’ultima e più compiuta elaborazione della magia rinascimentale, quella che fa capo al filosofo Giordano Bruno.
In Bruno le barriere tra anima e corpo sono divelte, in favore di un nuovo concetto di materia. Essa non è più “ricettacolo oscuro”, ma diventa “viva” e “vitale”, con la conseguenza che proprio l’anima assume un differente significato epistemologico, ovvero, diviene veicolo di conoscenza rispetto al flusso di informazioni che provenendo dal corpo ascendono all’intelletto.
Ma cosa significa tutto questo?
Significa una cosa ben precisa, che le facoltà dell’anima, tra cui si rivelano importantissime l’immaginazione attiva ed il pensiero astratto o simbolico (alla cui fruizione Bruno dedicò una gran quantità di figure, sigilli e diagrammi ermetici), lungi dal rappresentare “fantasmi della mente” vanno invece a coadiuvare il pensiero razionale nella comprensione e nel controllo della realtà naturale, prevedendone il corso e i ritmi.
In tutto ciò il fatto che la materia bruniana non sia più, come in passato, immaginata eterogenea (cioè da un lato divina e celeste, dall’altro sub-lunare e terrestre), ma fisicamente identica ed organizzata da un unico principio, offre all’uomo la possibilità di conoscere – ed al mago di controllare – i nessi universali prodotti dalla legge per la quale – nuovamente – il tutto si profonde nel tutto.
Così, anche per Giordano Bruno la magia è “cognizione dei segreti della natura”, ma a differenza di Cornelio Agrippa, Pico della Mirandola e Marsilio Ficino, che dividevano la realtà in diversi livelli qualitativi e di rimando “conoscitivi” (quindi – rispettivamente – il divino, il mondano e l’umano), egli relativizza il concetto neoplatonico di gerarchia, ed eliminando la distinzione tra mondo celeste e sub-lunare arriva, da un lato, a sbaraccare definitivamente il campo dalla necessità del ricorso magico alle potenze intermedie (tanto care, invece, alla teurgia neoplatonica e medievale), dall’altro a dare un colpo mortale alla credenza circa presunti effetti operativi “sovramondani” non riconducibili, metodologicamente, alla completa cognizione dell’uomo, o meglio del mago quando in possesso del necessario discernimento circa la materia di cui è fatto l’universo.
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*Immagine di copertina: Ermete Trismegisto in un intarsio della Cattedrale di Siena