di Gianfranco Murtas
È molto dotta e anche suggestiva la riflessione offerta da Giuliano Di Bernardo sulla quale mi viene chiesta una opinione evocando oggi una prossimità ideale, non associativa, al gran mondo della Libera Muratoria – quella universale con le sue fondative tavole valoriali e quella nazionale spesasi nel concerto con la storia patria –, prossimità che rimane inalterata da quasi mezzo secolo nella mia Cagliari. Perché poi resta sempre integro, insieme con l’adesione etico-civile alla missione, l’apprezzamento del Grande Oriente d’Italia come patrimonio morale della nazione. Il che non toglie, è di tutta evidenza, che costituisca dovere anche di osservatore la critica di passaggi ritenuti non congrui, perfino nella bruciante attualità, in una conduzione corporativa indebolita (così pure nelle sedi minori, non soltanto a Villa il Vascello) dagli assalti, o dagli allettamenti, dei modelli amorfi e ingannevoli della società liquida.
L’approccio più storico che filosofico che nell’arco di mezzo secolo, fino ai malanni recenti che mi hanno messo nella riserva degli inerti, ho volto alla materia massonica, anche con la produzione di diverse migliaia di pagine descrittive di uomini ed eventi ad essa riconducibili, può suggerirmi alcune considerazioni che, ad ogni modo, non vorrei negare alla gentilezza degli interroganti. Chiarendo in partenza il punto di vista strettamente soggettivo, che è sociale e non dottrinario, dal quale ho colto qualcosa, chissà se molto o (nonostante l’impegno profuso) poco, di sostanziale dell’umanesimo massonico. Perché quel punto di osservazione, e anche di coinvolgimento morale nella logica fraternale, è lo stesso che aveva ispirato Rudyard Kipling, iniziato ancora minorenne quand’era (appunto ventenne!) vice direttore della Civil & Military Gazette in quel di Lahore (ieri India oggi Pakistan), nella sua saggia affabulazione poetica nota come “Loggia madre”. Intendo la dimensione ecumenica della comunità che sa evolvere, generando eggregore, fino alla meta comunionale. Quella che puoi definire, senza sbagliare, della pienezza umanistica.
A farla semplice, si dice trattarsi di una motivata ed appagante trasversalità, e tale essa certamente è sotto i profili delle appartenenze ideali e politiche, sociali e culturali, di censo e professionali, così come sotto quelli delle provenienze geografiche e linguistiche, cullando sempre il sogno universalistico. Così che il sick (era Amir Sing) e l’israelita di Aden (era Saul), il cattolico romano (era Castro delle officine di riparazione) e quel Din Mohamed dell’ufficio Catasto, tutti si ritrovavano insieme con il Secondo Diacono (poi Segretario e anche Maestro delle Cerimonie) che era cristiano anglicano figlio di metodisti e soldato del secolare impero britannico. Vari i mestieri e gli uffici ricoperti nell’amministrazione pubblica, c’era chi reggeva il magazzino “Alle derrate europee” (era Framjee Eduljee) e chi svolgeva le sue mansioni alla contabilità (Bola Nath), e altri alla intendenza (era Ackman) oppure alle carceri (era Donkin), alle ferrovie (era Beazeley) o alla stazione (era Rundle) e chi, ancora, nell’esercito s’impiegava nelle funzioni di sergente istruttore (giusto Blake che era stato per due volte il Maestro Venerabile di tutti). Sì, ebrei e indù, cristiani e musulmani, fra loro anche Babu Chuckerbutty. chissà se, per qualche stagione almeno, proprio il noto organista religioso nipote del celebrato medico e professore di radici anche lui indiane…
Fra il Venerabile Blake e gli Old Charges
Facile forse l’assortimento in una lontana terra coloniale, una certa mescolanza necessaria all’equilibrio sociale, ma relativamente facile anche a Roma, nella Roma papalina del Settecento come nella universale Firenze dei Lorena, con qualche battezzato cattolico accolto sulla stessa panca di settentrione dell’ebreo ancora tacciato di “deicidio” o magari del riformato luterano o calvinista di provenienza estera… tutti diversi e tutti uguali, impegnati in mutui scambi e tesi ad una mutua integrazione. Obbedienti per slancio di coscienza al dettato degli Old Charges per cui la massoneria doveva farsi luogo di incontro fra coloro che, senza di essa, mai avrebbero avuto modo di approcciarsi, di conoscersi e frequentarsi, di stendere, con contributo originale, una qualche trama civile volta allo sviluppo delle libertà. Papa Corsini, Clemente XII, duecentovent’anni prima del Concilio giovanneo e paolino che, incuneandosi (per sfarinarla) nella scena del pericolo nucleare, si sarebbe tutto speso nella logica ecumenica, senza che nessuno perdesse alcunché della propria identità ma dagli altri imparasse ad attingere sorprese, godendosele ed arricchendo così la propria identità!… papa Corsini condannò senza appello, sia temendo segreti dispetti alla sua (invero per nulla evangelica) teocrazia sia contestando quella impossibile pari dignità dichiarata con e come vanto fra fideles ed infideles, fra chi fosse fecondato dallo Spirito Santo e chi ignorasse la verità vera e assoluta della Parola cristiana profusa per dogma dalla Chiesa.
Come il pontefice e la sua corte di curiali (dal nemico protetti tutti dalla permanente efficienza della ghigliottina dei tanti Mastro Titta), anche gli autocrati sui troni, imperatori e re, con i loro governi reazionari nello stesso XVIII secolo (quello dei lumi) e anche nel secolo successivo. Conosciamo la storia. E conosciamo le “compromissioni” politiche (peraltro quanto salutari nelle temperie civili dell’Ottocento tanto prima quanto dopo il rilascio delle costituzioni variamente conquistate dai popoli in rivolta) impostesi ai percorsi ideali e associativi, anche massonici, materializzatisi sul continente europeo, dirimpetto a certa “purezza” preservata nel Regno Unito (britannico-irlandese), all’ombra della “stabile” Corona Windsor o chiamala pure, per il lungo ma movimentato rilascio storico, Wessex o Plantageneti o Tudor o Stuart o Hannover, e dentro mettici anche Lancaster e York e quanti altri a fare il pieno con i Sassonia-Coburgo…
Privi di una qualsiasi “magna charta”, sofferenti nelle faticose ricostruzioni delle coerenze territoriali e giuridiche (statuali) in speculare corrispondenza con gli elementi identitari e nazionali, gli europei continentali vivevano tutt’altra storia e la stessa massoneria, con tutte le sue derivazioni o parentele nel variegato sistema delle società segrete e/o carbonare di matrice antidinastica così come con le frange del moderato lealismo liberale e monarchico, cercò – e fece bene – di dare un corpo alle idee, un programma alle finalità, altrimenti eteree, di diffuso avanzamento civile in termini di responsabilità politica e di partecipazione democratica. Così come si era posto il problema della conciliazione fra il credente e il cittadino, e la Chiesa gerarchica doveva ingoiarne battendosi il petto dopo aver marginalizzato i profeti – metti il Rosmini oggi beato –, anche in campo massonico si era posta la questione di un impegno civile che l’umanesimo coltivato nelle logge doveva alimentare e supportare, nella semina e nel raccolto. E si pensi qui al mutualismo operaio tanto sostenuto prima che s’affacciasse alla storia lo stato sociale, o si pensi alle battaglie contro la pena di morte. Anche le logge sarde non furono estranee né a sostenere il mutualismo né a combattere la pena di morte.
Secondo Di Bernardo, se ho ben compreso la sua pur magnifica elaborazione, i principi democratici, orizzontali per loro natura, applicati ad un ambiente carismatico verticistico che tale sarebbe per propria natura (al pari della Chiesa che infatti passa i millenni restando se stessa), corromperebbero in automatico quella Libera Muratoria caratterizzata dal passaggio sapienziale “in discesa” e fuori dal tempo, da custodia a custodia di gran maestri illuminati. Il tutto restando in un ambito rigorosamente minoritario, infinitesimale, della frazione già essa elitaria.
La suggestione derivante dalla rigorosa lettura massonica dell’ex gran maestro, che evidentemente merita ogni rispetto e considerazione, rimanda a livelli altri da quelli storici ai quali le vicende di molte generazioni ormai hanno invece fissato le dinamiche propositive e realizzative indirizzate all’esaltazione dell’umano: dell’umano. La socialità, io credo, coesisteva nelle stesse espansioni proselitistiche della Libera Muratoria inglese in campo coloniale, ma era connaturale agli stessi Old Charges britannici che postulavano, nella loro centralità, la fraternità invece che la figliolanza.
E peraltro meriterebbe anche dire che una esasperazione “spiritualistica” e… clericale – perché uscendo dai fondamentali essa consumerebbe l’intero pacchetto ridefinendo l’abito di tutti – fu nel tempo esposta al rischio della replicazione ordinamentale e dogmatica della Chiesa: fu proprio nella lunga stagione del positivismo, vissuta con passione e anche, forse, qualche aridità (si sarebbe detto, tempo dopo, degli atei devoti), che in Italia la Libera Muratoria accentuò la propria configurazione a mo’ di contro-Chiesa. Così da noi molti massoni, non soltanto del Sassarese, battezzavano i loro bambini al sasso garibaldino di Caprera e in generale si prese a sacramentalizzare diverse azioni e organizzazioni rispondenti, dai riconoscimenti coniugali ai riti funebri. (Così fino a mutuare la dogmatica del “sacerdozio in eterno” portandola nel recinto del “massone per sempre”: ma ignorando che nell’iniziazione opera l’umano, non il trascendente, e senza unzione è la coscienza che promette a sé, al Venerabile ed alla comunità-comunione convocata apposta per l’accogliente abbraccio, una coerente rispondenza ad ogni provocazione della vita. Questo e niente altro).
Ciò non significa che, anche fuori dalle dritte britanniche, mancò nelle logge del continente e in quelle italiane – e ancora oggi, per chi la sa penetrare, marca una sua presenza – la santa spiritualità, quella stessa che ribolle, ad esempio, nelle cerimonie di accompagno o di ricordo dei Fratelli passati all’Oriente Eterno: tanto il rituale parlato ed agito quanto la corale partecipazione sono cosa meravigliosa che regge bene il confronto, ove mai ci si volesse misurare su questo piano, con le funzioni religiose officiate da un prete in una qualsiasi chiesa: senza farsene né sostituto né avversario. Ché la massoneria non è né una religione né tanto meno una chiesa, ma una ecumene umanistica, una compresenza orientata al miglioramento, se non al perfezionamento, individuale e sociale: “per il bene e il progresso dell’umanità”. E non sorprende dunque che fu il gran maestro che era stato triumviro nella Toscana rivoluzionaria (e democratica) del 1848-49, Giuseppe Mazzoni cioè, a raccogliere l’invito della genovese loggia Caffaro a fissare al 10 marzo, data della morte di Giuseppe Mazzini, l’adunanza dei liberi muratori italiani nei loro Templi: per onorare le memorie dei generosi e insieme per riflettere sulla caducità della vita, nell’istruttivo ripasso delle esperienze dell’iniziazione e del viaggio “dentro” la leggenda del Terzo grado come investitura alla missione nella giovanile replica dell’esempio virtuoso.
La balaustra di Guido Laj gran maestro messinese-cagliaritano
A questa visione civile, che ovviamente poggia su quell’altra dell’ortodossia, diciamo così, strettamente iniziatica si volse il gran magistero di Guido Laj, messinese di radici paterne e materne sarde e cagliaritane, che assunse il Supremo Maglietto (dapprincipio in triumvirato) all’indomani della liberazione di Roma dai nazi-fascisti e pressoché in contemporanea con l’esordio del primo governo di CLN, presente in esso anche il sardo Stefano Siglienti, sardista repubblicano, giunto all’azionismo passando per i sacrifici e le luci di Giustizia e Libertà, lui già galeotto di un campo burgundo (quel Siglienti che con la moglie Ines Berlinguer crebbe l’allora piccolo Enrico, prossimo segretario generale del PCI).
Poteva essere lecito, e poteva addirittura considerarsi un dovere l’impegno civile e politico, nel senso della democrazia, quello dei massoni quotizzanti nelle logge al loro risveglio?
Nella balaustra del suo insediamento, il 19 novembre 1945, parlò chiaro il gran maestro dopo un doveroso ammonimento e un richiamo alle molte infedeltà di chi era stato corrivo col regime di dittatura: “Non tutti mi è dato oggi nominare: ma valga per tutti il nome del nostro amatissimo Domizio Torrigiani che, travolto da eventi a cui tutti eravamo impreparati, ha saputo, col suo nobile contegno culminato nel sacrificio della vita, riscattare la molta viltà di cui tanti altri della nostra Famiglia hanno dato prova. Perché – bisogna avere il coraggio di dire la verità – accanto ai fulgidi esempi di fede, molti, troppi sono stati gli esempi di debolezza, di accomodamento, di tradimento; e da questa constatazione noi dobbiamo trarre non tanto l’incitamento a maledire ed a condannare, quanto l’ammonimento a perfezionare noi stessi, per farci più preparati alle prove avvenire di quel che non fummo in passato, ad allontanare dalle nostre Officine, se ve ne sono, quanti per il contegno nel passato ventennio o per lo spirito di cui sono tuttavia permeati, non danno affidamento di sicura fede massonica, a precludere le porte del Tempio a coloro che vengono a noi non pervasi da spirito di sacrificio ma da desiderio di appoggio, di favore. Non dobbiamo trovarci ancora, se verranno i tempi grossi – e verranno – con un esercito numeroso ma imbelle, che non sappia affrontare un pericolo, che non abbia la forza di sacrificare alcuna delle sue necessità, e neanche delle sue aspirazioni, per mantener fede al giuramento: se saremo in pochi, non importa; ma se la Massoneria non è e non riesce ad essere un corpo di eletti, eletti non per ricchezza o per sapere o per potere, ma per altezza e purità morale, essa manca alla sua missione: è meglio che non esista”.
E poi: “La Massoneria in Italia non può estraniarsi dalla vita politica del paese, non può modellarsi sui mirabili esempi delle grandi Famiglie anglosassoni: nei paesi in cui libertà cittadine e libertà di pensiero sono ormai da lungo tempo conquiste sicure, tanto sicure da non potersene neanche considerare come discutibile il possesso, la nostra Famiglia può rivolgere tutta la sua preziosa attività al perfezionamento dello spirito, allo studio dei misteri delle origini o all’assistenza e alla beneficenza. Ma è bene ricordare che, anche in America, quando libertà e indipendenza erano in giuoco, Beniamino Franklin e George Washington indirizzarono l’azione massonica ad attuare nel campo politico il grande trinomio Libertà Uguaglianza Fratellanza.
“Nessuno, io credo, oserà affermare che, nelle presenti condizioni d’Italia, sia superfluo l’intervento della Massoneria ad affermare e difendere questi principi nel campo politico: noi usciamo da una prova che ha dimostrato chiaramente che nessuna legge, nessuno Statuto, nessuna istituzione ha valore di difesa contro la tirannide, quando il popolo non sia spiritualmente pronto ad opporvisi a qualunque costo; noi abbiamo visto con i nostri occhi come la tirannide sappia avvalersi di ogni mezzo, sappia convogliar ogni interesse, sappia blandire ogni vizio, sfruttare ogni sentimento – di umanità, di patria, di religione – pur di vivere sul cadavere della libertà. Per liberarsi dalla tirannide noi abbiamo dovuto attendere il giorno della rovina della Patria nostra; ed anche oggi, pur dopo la constatazione del danno arrecato al paese dai megalomani sognatori di imperi, vi sono italiani che speculano sul malcontento, sul malessere, sull’umiliazione, per tentare di risuscitare il fantasma dello Stato paternalista, dove i giornali dicevano tutti le stesse cose, dove non c’erano partiti né polemiche fra partiti: uno Stato ideale, lasciatemelo dire, di eunuchi. Contro questi tentativi […] la Massoneria italiana deve trovarsi compatta, dove lottare senza tregua, senza debolezze colpevoli, in ogni campo, nella vita privata come all’interno dei partiti”.
La prevalente opzione repubblicana (lasciata in retaggio alle logge “dall’Apostolo dell’Umanità”) non preclude alcuno spazio ai sostenitori dell’idea monarchica, nonostante le colpe gravissime dei Savoia, ma comune dovrà essere l’impegno pubblico dei liberi muratori: “di fronte al pericolo non ipotetico ma reale di un ritorno del cessato regime sia pure sotto mentite spoglie, di fronte all’opera nefasta di chi sfrutta il malcontento per annullare ogni fiducia negli ordinamenti democratici, noi dobbiamo dire alto e forte in seno ai nostri partiti che non si può, non si deve titubare”.
Conclude il gran maestro: “il perfezionamento che noi perseguiamo nelle nostre Officine non si limita all’individuo, ma deve riverberarsi sulla società. La Rivoluzione francese ha conquistato all’uomo l’eguaglianza nei diritti civili e politici […] ma questo concetto dell’uguaglianza non è più sufficiente alle esigenze dei tempi nuovi. La forma politica è molto, ma non è tutto: all’uguaglianza politica deve andar congiunta l’uguaglianza sociale. Il nostro Ordine sempre, in ogni tempo e in ogni luogo, si è fatto sostenitore e promotore delle più ardite riforme, si è fatto paladino di quella legislazione che mirava a tutelare gli interessi degli uomini, a riconoscere la nobiltà del lavoratore intellettuale e manuale”. E proiettando il suo pensiero ai prossimi lavori della Assemblea costituente di Montecitorio immessa dal libero voto popolare in uno spazio storico e autenticamente patriottico: “non vi è un fine dello Stato diverso da quello della generalità dei cittadini; e l’organizzazione sociale deve essere tale da eliminare non il godimento del privilegio, ma l’esistenza, la possibilità stessa del privilegio […]. Nessuna riforma democratica repugna agli ideali massonici, per quanto ardita; è ora che la stolta leggenda di una Massoneria operante in difesa di persone o di classi, conservatrice gelosa di privilegi precostituiti: leggenda avvalorata da chi già maturava da lungo tempo di uccidere la libertà e vedeva nel nostro ordine il nemico sicuro […]”.
Viatico ideale per l’oggi e il domani, fra militanza civica e cuore religioso: “Noi non combattiamo, né potremmo, la concezione religiosa della vita, noi non avversiamo né perseguitiamo né dileggiamo il sacerdote, lo rispettiamo anzi come espressione di una fede, della sua fede; vi sono nelle nostre file pastori di molte chiese, vi furono in passato anche non pochi sacerdoti cattolici”. Restano integri i postulati della Libera Muratoria: la libertà di pensiero come “fondamento primo del perfezionamento morale”, l’educazione [scolastica] “fondata sulla legge morale ma indipendente dalle particolari credenze religiose”, lo Stato laico come casa di tutti. “In questa nostra incrollabile posizione nessuno può vedere una minaccia alla legge morale cristiana che informa di sé non solo la vita del popolo italiano, ma tutta la civiltà moderna”.
Una lezione che vale anche per l’oggi, pur così diverso dal 1945.
Alcuni passaggi del Grande Oriente d’Italia
Di Giuliano Di Bernardo mi è sembrata molto efficace la pur rapida, direi pittorica, ricostruzione delle vicende storiche del Grande Oriente d’Italia (e, fino agli anni ’70 del Novecento, Famiglie cugine d’impronta neoferana) ed in specie delle gran maestranze moderne, da lui definite, press’a poco, come tese ciascuna a modellare secondo proprie propensioni (talvolta perfino egoistiche, direi convenienze, in funzione cioè di auspicate conferme del mandato) l’Obbedienza cui “democraticamente” – secondo il peccato cioè – esse erano pro tempore chiamate nel maneggio del Supremo Maglietto.
Conosco anch’io, credo abbastanza bene, ora per studio ora per personali interlocuzioni o corrispondenze, diversi dei protagonisti della bella storia e diverse delle esperienze, da loro e dal popolo dei giustinianei in generale, maturate nel tempo e sempre e comunque – prima e dopo le ferite del gellismo e della P2 com’è stata poi esplorata ed espunta – nel rispetto della legalità e dell’ordinamento della Repubblica. Utile la corrispondenza con Gamberini (e, confidenziale, con don Rosario F. Esposito, che in fin di vita ebbe un riconoscimento dalla Comunione di Palazzo Vitelleschi quale “maestro libero muratore onorario”!) e positivi i contatti con Battelli, giunto a Palazzo Giustiniani dopo la “crisi” Salvini (dimessosi anzitempo), intensi i rapporti, anche personali ed affettivi, ed anche nelle lunghe fasi di distanza, con Armando Corona.
Qui, riallacciandomi a quanto più sopra ho affacciato, vorrei portare una testimonianza che mi rimanda, nel rapporto dialogico con il gran maestro cresciuto nella massoneria sarda – dalla Giovanni Mori carboniese alla Hiram cagliaritana, alla presidenza del Collegio per il balzo quindi alla guida della commissione elettorale nazionale del 1978 e alla successiva prima presidenza della Corte Centrale (con nobile gusto della piena indipendenza dal gran maestro neoeletto) – alla metà degli anni ’80, ad a un momento cioè che veniva dopo tre lustri di molte fiduciarie relazioni le quali ci avevano saldato, fra Cagliari e Roma, nei valori umanistici e politici.
Alla riforma della Costituzione e del Regolamento generale del GOI Corona annetteva molta importanza. Spinto da alcuni dei suoi collaboratori – in sorprendente “contrasto” con uomini come Comba e Savina, rispettivamente riformato valdese e di discendenza e fede ebraica, pure essi della sua stretta cerchia – egli intendeva emancipare, almeno formalmente, con la questione del superamento del monoteismo, gli antichi rapporti con le fonti dottrinali di radice inglese, e marcare i tratti di un umanesimo universalista che distanze prendeva anche dalla storia nazionale. E la ridefinizione dell’anno massonico, tolto dallo “scavalco” e giustapposto a quello del calendario civile, derubricando di conseguenza il valore del XX Settembre così centrale invece nelle consolidate riflessioni nazionali, valeva a “innovare” sostituendo ex abrupto il piano della memoria storica e delle conseguenti consapevolezze patriottiche e laiche con quello tutto e soltanto esoterico (ma da quanti davvero compreso e intimamente vissuto?) dell’equinozio d’autunno. Ricordo perfettamente che, a tanto sollecitato da taluno assunto come consigliere, egli mi argomentò come tanti massoni fossero stati sì patrioti spesisi per l’unità d’Italia ma come altrettanti si fossero mantenuti distanti e freddi verso quell’obiettivo o anche soltanto verso la modalità popolare e volontaristica, non istituzionale o diplomatica, del processo unitario: citò il pesarese Terenzio Mamiani della Rovere, o l’ultimo Mamiani in conversione (o meglio: Mamiani tutto intellettuale e mediatore), e addirittura, tornando all’indietro, il reazionario geniale ministro e ambasciatore Joseph de Maistre, che peraltro anche del Mamiani fu tutt’altra cosa.
Mi permisi, dal mio marginale angolo di studio (che era quello ispirato alla lezione di maestri come Arturo Carlo Jemolo, Francesco Margiotta Broglio o Giovanni Spadolini), di far presente al gran maestro la centralità, non soltanto nazionale ma universale, per la caduta del temporalismo papale, della permanenza di riflessione sul XX Settembre e su quanto ad esso i massoni italiani – e anche il nostro Giorgio Asproni che salì alla torre di Palazzo Vecchio per issare il tricolore quando giunse da Roma la gran notizia della breccia di Porta Pia – s’erano riportati per più d’un secolo. Calare quella insegna ideale, nel seno delle lavorazioni artierali (proprie delle logge) intorno alla libertà morale e civile come obiettivo evergreen, significava arrendersi ai rischi, già allora percepibili, della “società liquida” poi teorizzata da Bauman e figlia di quella che Vattimo aveva segnalato come trappola del “pensiero debole”. Oltre le ideologie che non vogliono dire per forza dottrinarismi, ma invece coerenti e dinamici sistemi valoriali di riferimento.
Concludendo
Siamo arrivati all’oggi. Così mi vien detto: ora tutto pare possibile, anche l’impossibile fisico e spirituale, sia pure soltanto in qualche taverna non più “All’Oca e alla Graticola” ma autoproclamatesi Kilwinning o altro, in un punto disgraziato del mondo, e però e comunque nell’omertoso silenzio di tutti (meno uno o due), di graduati ed attendenti, come a Mosca dove impera il maledettissimo Putin: strame dell’arte e della cultura, e dell’educazione, nel complice silenzio generale. Irriso a Cagliari, la Cagliari di Francesco Sitzia ed Alberto Silicani, il Mazzini donato dalla loggia Lando Conti alla casa Sanjust oggi Racugno presenti il gran maestro Raffi e Lorenzo Conti e tutti uniti nel corale canto mameliano, irriso il Bovio del massone Boero (1904) che impreziosiva la segreteria della loggia Sigismondo Arquer fino a che i fascisti non lo sequestrarono imprigionandoo in un magazzino e che ebbi la sfortunata idea di portare nella sede deputata, presentandolo e raccomandandolo. Tutto è stato ed è possibile compiere da qualcuno senza testa e nella corrività dei silenti alti e bassi, anche lo scherno delle opere di Francesco Ciusa, massone dal 1911, anche lo scherno spalmato sulle personalità di vertice della nostra Repubblica così come anche sul 25 aprile – a proposito di date di calendario e di democrazia civile –, anche il blasfemo ridicolo imposto al Maestro Hiram, ed il dileggio crudele e volgare sul verso di un labaro. Celebrato la sera, da un senza testa, il rituale inglese tutto spirituale, sottratta dal medesimo senza testa, nel buio della notte fonda, e svenduta chissà a chi la bibbia sacra. Il fumante caffè di Minnie invece dell’amen ai morti nel rogo d’un porto libanese… e, a fine rassegna, il pianto di chi ha saputo non trattarsi di un incubo passeggero ma di una intima e insuperabile e recidiva perversione scatenatasi fra il Tempio ed i Passi Perduti.
“L’uno dopo l’altro i Fratelli / prendevano la parola: / nessuno si agitava” scrive Kipling. Forse questo è rimasto e ancora distingue una loggia per bene, a Palermo come a Nuoro e Pavia, da un talk televisivo che misura, ad ogni sua puntata, lo smarrimento della società educata e dialogica. Perché ormai è diventato sforzo inutile quello di ascoltare, come anche quello di chiedere scusa.
Marcano una mesta involuzione i giudici che, assolvendo e condannando, si vantano della propria partigianeria, come certamente non si mostrò a suo tempo – intendo Torquemada – Paolo Carleo, galantuomo tutto d’un pezzo, quando espulse Gelli. Non si mostrò “chierichetto” verso il gran maestro Battelli e la sua giunta, quel giudice-presidente, per riprendere la battuta di papa Bergoglio riferita al patriarca Kirill prono al Kremlino: decise secondo coscienza. Mentre in Sicilia e Calabria, si dice, infiltrazioni inquietanti della malavita organizzata sarebbero ormai da decenni radicate attorno ad un Pentalfa zittito dal conformismo o peggio dalle convenienze… Prospererebbe una certa malavita che, sostiene chi gli argomenti ha udito con l’orecchio della spia e s’è come ingessato nella sua paura, fanno passare ancor più in non cale la scabrosa decadenza dei fumetti idioti sopra cennati e liquidati per imbecille “goliardata”, tali comunque – io direi – da associare in doloroso sconcerto le grate memorie di Nathan e Laj e Corona, i gran maestri sardi, senza smuovere invece chi, senza anima ed amore, è venuto dopo: “Sono coloro che non riflettono, a non dubitare mai. / Splendida è la loro digestione, infallibile il loro giudizio. / Non credono ai fatti, credono solo a se stessi. Se occorre, / tanto peggio per i fatti. La pazienza che han con se stessi / è sconfinata. Gli argomenti / li odono con l’orecchio della spia”, scrive Bertold Brecht.
Di Bernardo (che non conosco personalmente, né gli ho mai parlato né scritto) meriterebbe, io credo, di essere invitato in ogni circoscrizione del Grande Oriente d’Italia, trent’anni dopo l’abbandono del suo seggio a Villa il Vascello, per raccontare e documentare la sua esperienza. Le urgenze calabro-sicule lo esigerebbero.
E mi permetto qui, in conclusione, riferendomi proprio alla geografia sociale che zampilla tante inquietudini nel corpo giustinianeo nazionale di recente chiamato al rinnovo elettorale, di ricordare la partecipazione sarda all’evento che affratellò, centoquindici anni fa, isolani ad isolani, meridionali a meridionali. Le squadre degli studenti e dei professori partirono per i soccorsi da Cagliari e da Sassari, e Palermo e Messina e Reggio entrarono nelle priorità solidaristiche dei massoni della Sigismondo Arquer e della Gio.Maria Angioy e anche delle logge di Oristano e Alghero, Tempio e La Maddalena, Iglesias e Carloforte, dei massoni fatti e dei massoni in pectore, fra i quali mi piace richiamare il grande nome di Armando Businco. Evocai i tratti di quello slancio pro-Sicilia e pro-Calabria in una tornata speciale presso la casa massonica a Cagliari, fianco a fianco del caro busto di Giovanni Bovio, ai primi del 2009. Mi fa strano come tanto sentimento di un tempo lontano, così ben confermato un secolo dopo, possa essersi perduto nella deresponsabilizzazione diffusa, e spudorata anche dove era “parola data e sempre mantenuta”.