di Orthelius
*Per il 424º Anniversario della morte sul rogo di Giordano Bruno
Per molto tempo considerate difficili da comprendere, altrettanto a lungo fraintese, le opere “mnemotecniche” di Giordano Bruno si sono rivelate, con il tempo, il cuore dell’intera produzione dell’autore.
In particolare, a partire dal De umbris idearum (pubblicato a Parigi nel 1582 insieme all’Ars memoriae) l’esperienza del mondo viene descritta come un’ombra, una proiezione ambigua ed imperfetta della mente di Dio. Il quale, pur essendo intrinseco al reale, con la sua immanenza, non sarebbe rilevabile tramite l’ausilio del solo intelletto. Inteso qua dal Nolano in modo molto diverso dal nous di Plotino.
Non un’“ipostasi” o emanazione diretta dell’Uno, facente parte della divinità e veicolante le idee negli organismi – come nel neoplatonismo classico – ma più modernamente la facoltà cognitiva dell’essere umano.
Una facoltà – la “ragione” – tuttavia imperfetta. Compito dell’uomo diventa allora quello di realizzare, per mezzo della memoria e attraverso l’uso di particolari tecniche, una conoscenza della realtà che, staccandosi dal semplice esercizio della doxa, sappia riuscire ad avvicinarsi al “vero”, percorrendo un cammino che, lungi dall’essere già tracciato, apre continuamente all’esplorazione delle infinite possibilità dell’immaginazione; secondo la tipica concezione del Nolano.
A questo proposito nel De umbris idearum Dio viene presentato come l’“idea eterna”, mentre le nostre idee (realizzate tramite l’atto conoscitivo) sono le “ombre” di essa, potendo venir pensate e ricordate soltanto a condizione che siano incorporate in forme sensibili.
Invece l’Ars memoriae è di carattere pratico. Bruno presenta il sistema mnemonico come un meccanismo composto da ruote concentriche divise in trenta segmenti principali, ciascuno dei quali ripartito in cinque settori segnati dalle cinque vocali, dando luogo in tutto a centocinquanta suddivisioni. Ad ogni ruota, i cui segmenti sono contrassegnati da trenta simboli (ventitré lettere dell’alfabeto latino, quattro dell’alfabeto greco e tre dell’ebraico), corrisponde una serie di immagini: un personaggio (prima ruota), un’azione (seconda ruota), un modo d’essere/aggettivo (terza ruota), un oggetto o un animale (quarta ruota), un quadro generale di relazioni (quinta ruota).
La prima ruota si riferisce alla prima lettera della sequenza da memorizzare: Bruno definisce tali lettere agentes, perché si riferiscono a immagini di “attori” (per colpire l’immaginario collettivo il filosofo impiega delle figure abbastanza conosciute al suo tempo, tratte dall’opera Metamorphosĕon libri XV di Ovidio); la seconda ruota serve per la seconda lettera della sequenza e contiene le actiones, cioè i “comportamenti” che i personaggi compiono. La terza ruota, invece, contiene gli insignia, ovvero gli “attributi” che qualificano l’azione. In genere tre ruote sono sufficienti per codificare buona parte delle sequenze; ove ciò non sia possibile si può ricorrere ad altri due elementi complementari, oggetti che non partecipano alla scena ma che si collocano sullo sfondo: gli adsitentia, ovvero “elementi assistenti”, che si dispongono sul quarto e sul quinto anello.
Queste ruote devono girare per formare delle combinazioni di immagini sempre mutevoli, in modo che ogni sequenza di parole o lettere da ricordare sia associata ad una scena: memorizzando la scena e conoscendo il sistema di codifica, è possibile risalire alla sequenza. Ricorrendo a più scene, si potranno similmente ricordare più sequenze. Grazie a questo sistema, secondo Bruno, è possibile, attraverso l’uso della memoria visiva, imprimere nella mente ogni tipo di scoperte e pensieri prodotti dall’attività dell’uomo nel corso dei secoli, giungendo così, infine, alla conoscenza ultima della realtà (vedasi Figura sottostante).
Il Sigillus sigillorum
È però nel Sigillus sigillorum che sono poste, in modo analitico, le basi dell’ontologia e della discussione del problema del rapporto tra mente, figura e parola. L’opera, tra le più importanti di Giordano Bruno, viene pubblicata in Inghilterra nel 1583, ossia l’anno successivo al De umbris idearum, e come quest’ultima fa parte dei testi redatti in latino.
Esce accompagnata da altri due interessanti componimenti: il primo intitolato Ars reminiscendi, il secondo denominato Triginta sigilli et sigillorum explicatio, dedicato, appunto, alla presentazione ed alla spiegazione dei sigilli.
Il trittico, nel suo complesso, definisce ancor meglio l’arte della memoria (già presentata precedentemente), e tra antichità e presente propone un percorso complesso, ma organizzato, di espedienti per ordinare, in modo efficace, un’immensa quantità di dati, fino ad arrivare al vero e proprio “Sigillo dei sigilli”, che associa qualsiasi informazione cognitiva al numero 12.
Il “Sigillus” costituisce, nella sua interezza, un insieme molto articolato, difatti non solo affronta un tema stratificato e concettualmente sofisticato come la mnemotecnica, ma lo fa curando anche una vera e propria “didattica” circa le metodologie atte a coltivare e perfezionare questo tipo di apprendimento; inoltre, lo stesso Bruno ivi presenta un inconsueto ed originale materiale figurativo da lui stesso prodotto, che sarà successivamente implementato con i “diagrammi ermetici” del cosiddetto “Opuscolo di Praga” (Articuli centum et sexaginta adversus mathematicos), scritto nel 1588 come omaggio all’Imperatore Rodolfo II d’Asburgo, e con quelli del De triplici minimo et mensura, pubblicato a Francoforte tre anni dopo.
Non bisogna immaginare, tuttavia, che questi temi siano per intero appannaggio originale del Nolano. Essi, infatti, si inseriscono in un solco molto in voga all’epoca di Giordano Bruno, segnato – tra le altre fonti – dalle formidabili conoscenze mnemotecniche dei predicatori domenicani (che le utilizzavano per trionfare sugli interlocutori nei confronti dialettici): dall’Ars magna dello spagnolo Raimondo Lullo (1235-1315), al manuale veneziano del 1491 intitolato Phoenix sive artificiosa memoria (primo trattato di mnemotecnica ad essere destinato ad un pubblico laico), fino al vagheggiato progetto utopistico dell’erudito Giulio Camillo Delminio (1480-1544) circa il cosiddetto “Teatro della memoria”, modellato sul De architectura di Marco Vitruvio Pollione e ispirato all’ermetismo filosofico, alla tradizione cabalistica occidentale e all’astrologia.
Detto questo, però, bisogna riconoscere a Giordano Bruno il merito di essere stato il primo a concepire un vero e proprio sistema figurativo “mobile” per associazioni visive.
Alle ruote con le lettere dell’alfabeto, infatti, dal “Sigillus” in poi (ricordo l’importante e specifico De imaginum, signorum et idearum compositione) si vanno a sostituire le immagini, che costituiscono tra loro una successione concatenata di scene destinate ad occupare lo spazio (il locus) dell’immaginazione. Questo era possibile perché, sempre secondo il Nolano, nella facoltà fantastica esistono svariati sostrati (i “subiecta”), tali da poter accogliere facilmente una molteplicità, potenzialmente infinita, di forme significative.
Così la fantasia si riempie di “adiecta”, cioè di “rappresentazioni” pensate, che nella loro ultima formulazione si faranno addirittura tridimensionali, come illustrato nell’opera Lampas triginta statuarum, scritta nel corso del 1587 a Wittenberg e mai pubblicata. Qua il pensiero giunge a muoversi non più all’interno di figurazioni piane, ma arriva a districarsi tra differenti piani assiali, puntando, in tal modo, all’articolato ed inesauribile atto della reminiscenza.
La memoria, infatti, per Bruno, non si fonda su processi cognitivi razionali, bensì sul potere dell’immaginazione, facoltà giudicata dal Nolano infinita proprio come l’universo. In questo senso il “pensiero astratto”, con la sua imprescindibile componente simbolica, è concepito come una “clavis universalis” (o “clavis transmutationum”, vedasi Figura N), ovvero un sistema in cui la visione di spazi prospettici amplificati è in grado di aprire all’incontro tra mente (“ragione”) e realtà (“imago” del trascendente).
Quando in un precedente articolo su Bruno ho accennato al filosofo austriaco, poi naturalizzato tedesco, Edmund Husserl (1859-1938), ed al filone fenomenologico novecentesco che prende avvio dalle sue speculazioni… ebbene, ora ne sarà più chiara l’inferenza con Giordano Bruno. Poiché appare davvero impressionante l’assonanza tra il “pensiero astratto”, esplicitato come “universo delle possibilità di senso”, e la “soggettività trascendentale” husserliana: entrambi posti alla base – nei rispettivi sistemi concettuali – dell’atto conoscitivo.
Faccio ulteriormente osservare che, con l’ultima annotazione, si sono pacificamente accostate tra loro riflessioni speculative, in merito a cos’è l’“io” di fronte al mondo, separate da quattro secoli di storia del pensiero filosofico europeo.
Influenze e problematiche
Da quanto sopra esposto appare chiaro che per Giordano Bruno l’“Arte della memoria” non è soltanto “ars reminiscendi” – sostenerlo sarebbe alquanto riduttivo – ma è una fantastica unione di geometria, magia naturale ed ars memoriae. Ed è proprio nelle incisioni grafiche, le xilografie da lui stesso realizzate su legno, che si trovano esplicitate le attitudini fondamentali della sua dottrina, con particolare riferimento sì ai processi cognitivi, ma anche e soprattutto a quella “mathesis” – ripresa dagli studi filosofici di Niccolò Cusano – individuata come la scienza matematica universale, capace di esprimere la coincidenza di potenza ed atto nel “primo Principio”; distinta concettualmente dalle discipline analitiche dell’aritmetica e della geometria classica (sprezzantemente definita “geametria”), vedute da Bruno come domini fallaci nella loro descrizione tomistica dell’universo (poiché capisaldi della filosofia naturale di Aristotele), e reputata strumento genuino e preferenziale di conoscenza.
È doveroso, tuttavia, fare una considerazione: si devono distinguere nel Nolano due aspetti. Il primo, per così dire “tecnico”, legato allo strumentario filosofico di Bruno, debitore senz’altro dello Stagirita, composto dalle metodologie “associative”. Questo sfruttava tutte le possibilità della logica, fondandosi sulle quattro proposizioni aristoteliche relative al sillogismo: A, I, E ed O (Universale affermativa, Universale negativa, Particolare affermativa e Particolare negativa), conformemente all’assegnazione dei logici medievali (vedasi Figura B). Il secondo, di chiaro stampo neoplatonico, fatto di “gradi successivi” di conoscenza, attraverso i quali il “σύμβολον” mondano si purifica, per mezzo di “atti interiori” reiterati, passando da “ombra” a “vero” nel percorso di ascensione che si sviluppa dalla molteplicità all’Uno. Questo tratto specifico rappresenta il fulcro della “nolana filosofia”, ed è in sé parecchio problematico. Vediamone brevemente il motivo.
Da buon neoplatonico, infatti, Giordano Bruno avrebbe dovuto ritenere che l’unica possibilità di innalzarsi a Dio doveva essere quella che sfruttava l’ausilio dell’hesychia, ovvero dello stato di calma silenziosa della mente. Per Plotino, ad esempio, nel filosofo contemplativo dovevano venir meno sia le parole sia i pensieri, fino al raggiungimento della serenità interiore. Stesso riferimento negli Oracoli Caldaici, nei quali si afferma che per unirsi a Dio serve svuotarsi di ogni pensiero.
Un’ascesi, quindi, nella carità e nell’umiltà; tutto il contrario del temperamento “eroico” del Nolano! In cui, peraltro, il poderoso apparato psichico, richiesto dalle complicate “macchine mentali” usate per la mnemotecnica (ruote, figure, statue, alberi), configurava – in un certo qual modo – un sistema ben poco “mistico”, anzi molto “raziocinante”, di ascensione al Divino. Da ciò l’apparente incongruenza…
Queste commistioni, tuttavia, non devono sconcertare. In Bruno, infatti, il neoplatonismo non è quello pedissequo ai neopitagorici in esso confluiti, né tantomeno al Corpus Hermeticum di epoca imperiale (portato in Italia da Leonardo da Pistoia e tradotto da Marsilio Ficino cent’anni prima), ma viene digerito e ripensato per definire, attraverso la prospettiva di un’inedita religione della natura, un nuovo e differente significato dell’uomo e del mondo.
In ciò Bruno è certamente figlio del suo tempo – un’epoca caotica e contraddittoria – ma si presenta, altresì, come un pensatore capace di precorrere sensibilità attualissime.
Sigilli e Diagrammi, una spiegazione
Se, come abbiamo affermato, gli scritti mnemotecnici di Giordano Bruno costituiscono il cardine del suo pensiero, i sigilli e i diagrammi ermetici sono da considerarsi l’asse portante imprescindibile di tutto l’impianto concettuale dell’ars memoriae.
Le incertezze semmai sono nella loro interpretazione, che va molto oltre il campo filosofico ed affonda le sue radici nelle conoscenze esoteriche. Se l’esoterismo è giustamente inteso come “arte della correlazione”, tale quale noi iniziati lo intendiamo.
Non è certo questo il luogo per approfondire una simile questione, tantomeno per esaminare nel dettaglio gli svariati esempi grafici tratti dalle xilografie bruniane. Ai nostri fini ritengo possa dichiararsi esaustiva l’osservazione di sei grafemi, tratti dall’“Opuscolo di Praga” (quello redatto da Bruno contro i matematici aristotelici), denominati Theuti radius, Theuti circulus, Expansor, Atrium Apollinis, Atrium Minervae ed Atrium Veneris.
Analizziamo i primi due nomi: “Theuti” viene dal greco Θεῖϑ, in riferimento al dio egizio Theuth o Thot, mentre “radius” e “circulus” sono le parole latine “raggio” e “cerchio”. Perciò avremo, rispettivamente, “Raggio di Thot” e “Cerchio di Thot”, ovvero una prima delucidazione sull’apparente “stramberia” delle denominazioni.
Ma perché il dio egizio Thot? E perché quelle incomprensibili linee spezzate?
Si tratta forse di un linguaggio cifrato, “diabolico” e pagano? E se fosse così, come avrebbe potuto Giordano Bruno immaginarsi alla stregua di un credibile rinnovatore del cristianesimo?
Questi sono soltanto alcuni degli interrogativi che, attraverso i secoli, hanno accompagnato il tentativo di damnatio memoriae perpetrato ai danni Nolano. Ma come stanno davvero le cose?
Per rispondere in maniera compiuta a tale domanda dobbiamo riferirci a quanto esposto in precedenza. L’autore di questi grafemi (e degli altri presenti nelle sue opere), infatti, non era certo un impostore.
Giordano Bruno era un filosofo ermetico forte di una tradizione che risaliva a Simonide, che aveva studiato Niccolò Cusano e Cornelius Agrippa, e che aveva preso a sostenere, da La cena delle ceneri (1584) in poi, la teoria copernicana dell’eliocentrismo; un conoscitore del pensiero degli stoici e degli atomisti greco-romani, avvezzo alla Cabala, che puntava al recupero della primigenia conciliazione platonica fra cosmogonia e metafisica. Cosa sono, allora, i sigilli e i diagrammi?
La risposta è che sono degli schemi grafici di tipo geometrico che, di primo acchito, rappresentano le strutture d’ordine e le mappe per orientarsi nel magazzino della memoria, ma, più nel profondo, sono le visualizzazioni dei procedimenti logico-dialettici che avvengono nello spazio interiore, cioè figure che servono ad addentrarsi nella dimensione simbolica del mondo delle idee.
In questo modo essi vanno a comporre un “linguaggio”, nel quale la topica aristotelica (con la classica quadripartizione per sfere di problemi: vedasi Figura M) viene inglobata nella logica, la struttura stessa dell’Essere (l’Órganon, secondo la definizione di Alessandro di Afrodisia), andando a definire un nuovo modo di pensare.
Ecco allora spiegato Thot (l’Hermes dei greci ed il Mercurio dei romani, messaggero e psicopompo: fuoco segreto della natura poiché artifex coincidente con l’opus alchimicum), divinità creatrice, per mezzo della parola, il gruppo degli otto dei paredri (l’Ogdoade ermopolitana: vedasi Figura D/bis) della tradizione egizia (quattro maschili e quattro femminili), numi primordiali rappresentanti l’insieme delle forze primigenie discendenti dall’essenza del Caos…
Dio lunare, Thot, mediatore tra la prima materia e la materia ultima (il nostro “lapis”), raffigurato per mezzo dell’Astro nella Figura D, dal quale scaturiscono gli otto raggi paredri che daranno poi origine e protezione al Sole. Mentre i cerchi che avvolgono la cosmogonia definiscono l’universo: il primo indicante la dimensione celeste, il secondo – in stretta adesione – la produzione materiale, da cui si dipartono, ai quattro angoli, le foglie stilizzate, simbolo vegetale della successiva generazione organica.
Ma non è tutto: a questo punto, infatti, è più facile fornire la spiegazione di cosa siano quelle “incomprensibili” linee seghettate, che hanno gettato nello sconforto tanti interpreti bruniani. Esse non sono altro che i segni o “caratteri” dei pianeti, simbolicamente individuati per mezzo delle arcane corrispondenze tra il loro moto celeste, l’uomo e la Terra, per come tramandate dalla tradizione magico-esoterica; in special modo nel De Occulta Philosophia (Libro II, Cap. XXII) dell’astrologo ed esoterista tedesco Cornelius Agrippa von Nettesheym (vedasi Figura E/bis).
Molto interessante, a questo proposito, appare la Figura E, in cui lo schema mnemotecnico è sempre costituito dal subiectum, nella doppia configurazione di stilema vegetale e mondo celeste, però qua più fortemente caratterizzato da quello che sarà l’assillo costante di Giordano Bruno, ovvero la centralità cosmologica del Sole (almeno per il nostro sistema planetario), rappresentato, nella Figura in questione, dal cerchio centrale, sul quale insistono quegli stessi pianeti – secondo le loro rispettive corrispondenze simboliche – già raffigurati nella xilografia precedente.
Nondimeno, nella visione bruniana di un universo infinito ed in perenne trasformazione, la creazione non è un evento già concluso: essa si ripete ovunque e continuamente, in un movimento ciclico di espansione e contrazione molto differente dal noto “epamphoterìzein” (l’“oscillare” tra l’essere e il niente della tradizione nichilista) posto alla fine del Libro V della Politéia di Platone.
Così le forme viventi che scaturiscono dal grembo della vita-materia in questo si dissolvono, soggette alla libera ed uguale diversificazione (mai annullamento) dell’esistente. Restando sempre essa, la materia universale appunto, vero, originario e perenne fulcro generativo del reale (perché avente in sé la “forma”, cioè l’anima del cosmo).
Tutto questo lo possiamo riscontrare visivamente nella Figura H, da Bruno denominata “Espansore”. In cui la “prisca magia” del Nolano concepisce graficamente, attraverso la “mathesis”, il superamento della nozione aristotelica di “principio”, che non sarà più immaginato come un “motore immobile”, ma come una “virtù procreativa” che, lungi dall’essere intimamente statica, viene riportata al proprio intrinseco dinamismo originario.
In Genesi essa è espressa, plasticamente, dell’allegoria dello Spirito di Dio che aleggia sulla superficie delle acque (il potenziale).
In conclusione possiamo ora esaminare i tre “Atria” di Apollo, Minerva e Venere (come appaiono nelle Praelectiones geometricae), forse tra le più conosciute – quindi interpretate – Figure bruniane.
Queste non sono altro che il tentativo della riproduzione geometrica degli archetipi di Mente (Atrium Apollinis), principio unico ed assoluto; Intelletto (Atrium Minervae), causa efficiente dell’introiezione cognitiva dell’infinità dell’universo; Amore (Atrium Veneris), canone di concentrazione (vedasi Figura A/bis) ed unione dei contrari. Espressioni simboliche dei tre portali dimensionali capaci di condurre l’uomo a quel regno metafisico, architrave dell’universo, in cui è continuamente prodotta la realtà attraverso la vibrazione della Luce superna. Così lo stesso Bruno si esprime nel De triplici minimo et mensura:
«Colui che ricerca le regole proprie della misura e della figura e perviene a diversi e concordanti risultati, attraverso la stessa via, misurando forma e formando misura, deve indagare la natura del minimo ed individuare anzitutto l’elemento originario della materia… Se alla perfezione della mente umana, cui bramano i padri della sapienza, si aggiunge anche la pratica empirica, si sprigiona dalla mente una luce tale che si propaga fino ai sensi, che potranno così salire i gradini che conducono alle alte soglie (altre realtà), oltrepassando i bivi della intermedia ragione… La contemplazione del minimo, oltre che essere necessaria, deve costituire anzitutto una scienza naturale, matematica e metafisica»
La “contemplazione del minimo”, cioè della “Mente di Dio” presente nell’elemento primevo della materia (Apollo, dio del Sole, è qua il principio unico e medesimo in tutte le cose, il centro raggiante dell’Essere), attuata dall’“Intelletto” (simbolizzato da Minerva, dea dell’ingegno e delle arti) attraverso gli archetipi concepiti per mezzo della “mathesis”, concretizza “Amore” (Venere come suggello delle emozioni con le quali Dio anima il mondo fisico e con cui continuamente comunica mediante il linguaggio della natura): questo il lascito “ermetico” di Giordano Bruno.
Conclusioni (la Lampada bruniana)
Nel terminare i nostri ragionamenti sul Nolano, tuttavia, sarebbe sbagliato non dar conto di come, nelle proprie esposizioni, accanto alla sopra esposta Triade superna ve ne fosse un’altra infera, sviluppata sugli insegnamenti di Niccolò Cusano (vedasi le Figure sottostanti). Di essa Bruno ci parla nel già citato Lampas triginta statuarum, forse la sua opera più avanzata in tema di mnemotecnica.
In essa ai sigilli si sostituiscono le “statue”, ed i rimandi tra “subiecta” ed “adiecta” si fanno (come già rilevato) tridimensionali; tuttavia, è la cornice che racchiude le statue, nello specifico, ad essere del più grande interesse: essa costituisce la struttura profonda della Lampada, un complesso formato dalle due Triadi della Luce e delle Tenebre.
I sei elementi complessivi sono nominati “infigurabilia”. Da un lato abbiamo quelli già familiari, Mens, Intellectus ed Amor (Triade del pieno), dall’altro Chaos, Orcus e Nox (Triade del vuoto). Insieme vanno a circoscrivere, compenetrandosi, le condizioni di ogni realtà, e configurano le diverse modalità di concepire la divinità ed il suo operare nel mondo.
In questo modo la Lampada bruniana diventa la Luce in grado di rischiarare la notte dei tempi, la “struttura originaria” dell’Essere (riprendo qua una locuzione della filosofia severiniana), cioè i nessi relazionali inscindibili che allacciano ogni significato del Vero.
Bruno recupera, nuovamente (lo aveva già fatto con i diagrammi esaminati in precedenza), il tema biblico della Genesi, la visione della Monade divina come centro dell’Essere, che “sta” e “destina” allo stesso tempo. Espressione di un universo di necessità illimitato, articolato nelle due Triadi, formanti – tramite la loro partecipazione reciproca – lo scheletro del reale:
«In suprema igitur regione seu gradu est plenitudo, fœcunditas, patratio; in infimo est capacitas, carentia, aviditas. Primo in gradu, seu supremo, est possessio summa, divitiæ, dignitas et potentia triplex: activa, communicativa, formativa. In infimo grado est paupertas seu inopia, indignitas, defectus et potentia triplex: passiva, receptiva, subiectiva» (Lampas triginta statuarum)
Non bisogna commettere l’errore, comunque, di immaginare tutto ciò come un manicheismo; le Triadi sono, anche nella loro configurazione geometrica (vedasi la Figura tratta dal De coniecturis di Niccolò Cusano), intimamente connesse e soprattutto coincidenti nella loro radice. La quale è generatrice di tutti gli enti e dell’intero mondo in qualità di “espansore” della realtà fattuale, cioè come a noi si presenta, incessantemente, nel susseguirsi discreto dell’apparire fenomenico (vedasi Figura H).
Eppure come andare oltre la manifestazione? L’Intelletto, infatti, tramite il pensiero razionale, esercita un’attività che va e viene, intermittente tra un “prima” (oscurità) ed un “poi” (Luce della conoscenza), necessariamente destinata a sfumare… pertanto qualsiasi risultato si rivela sfuggente ed insicuro. Ebbene, non così per la cognizione simbolica bruniana, in cui la razionalità è amplificata dall’immaginazione. In grado di allontanarsi dalle contingenze dello spazio e del tempo fino ad integrarsi con l’oggetto osservato, in quanto compartecipe delle sue stesse dinamiche logico-rappresentative (unione espressa nell’Atrium Veneris attraverso il “Sigillo di Salomone”).
Il senso sostanziale di questo nuovo atto conoscitivo (non semplicemente “elencativo”) sarà l’apparire simultaneo del Tutto. Un apparire dove il Tutto appare non più nascondendosi, ed in cui ogni ente, integralmente correlato (Bruno chiama “vincula” questi illimitati legami “amorosi” fra le cose), si eleva nella costellazione infinita dell’Essere, consacrato a quella necessità che supera la volontà degli uomini e degli dei.
Idealmente, l’ultima speculazione bruniana sull’universo va a completare quanto era già stato esposto nel De umbris idearum del 1582: il “sole della verità” lo si può conoscere soltanto contemplando l’ombra; il Dio trascendente, il “Deus absconditus” della tradizione cabalistica (l’Ein Sof sovraordinato alla sephirah Keter, radice dell’Albero rovesciato) è sondabile solo penetrando l’abisso profondo. Come nei misteri eleusini, nei quali la κατάβασις è in realtà la vera “risalita”, ed il Sentiero della Notte (la materia) trasmuta in quello del Giorno (la Luce palingenetica). Fermo l’architrave cosmologico dell’eros, che corrobora e pervade ogni aspetto del reale e funge da collegamento (come fattore di trasformazione) tra i vari piani della scala ontologica.
Lo psichiatra svizzero Carl Gustav Jung, verso la fine degli anni ’20 del secolo scorso, attraverso i suoi studi sull’Alchimia (che riscopre, con l’esame psicanalitico delle relative immagini, dopo quasi tre secoli di oblio), ci parlerà del processo di “individuazione”… ottenuto per mezzo dell’approssimarsi dell’Io al Sé, nella progressiva integrazione ed unificazione delle “ombre” e dei contenuti psichici che formano – e rigenerano – la personalità individuale (vedasi Figure P e Q).
Quello che per Giordano Bruno, erudito italiano del XVI secolo, era l’integrarsi dell’uomo nelle leggi della natura, più specificatamente la proiezione dell’Intelletto umano nelle meccaniche divine, ottenuta tramite la contemplazione dei suoi sigilli, dei diagrammi, e la conseguente reminiscenza dell’altrimenti ineffabile, evolverà a distanza di secoli nella psicologia del profondo (con l’analisi della struttura dell’inconscio) e nella ricerca scientifica sull’atomo e le particelle sub-atomiche.
Cosicché sono oggi i moderni sincrotroni, capaci di accelerare e far collidere tra loro elettroni e positroni a velocità prossime a quelle della luce, a continuare l’indagine, sondando – ancora una volta – la grandezza di Dio nella voragine della materia.
Giordano Bruno, minuto frate domenicano nato nel Regno di Napoli quasi cinquecento anni fa, finalmente sorride.
1 commento
Complimenti all’autore. Disamina perfetta di un argomento molto complesso. Grazie, prof. Di Bernardo, di voler ospitare simili perle di sapienza esoterica.