di Michele Campostella
Quando mi è stato riferito del grande apprezzamento che la recensione al libro “La mia vita in Massoneria” aveva suscitato nel Professor Giuliano Di Bernardo ne sono rimasto, credo legittimamente, molto soddisfatto. L’impresa, infatti, all’inizio, non si prospettava per nulla facile…
Raccontare al Gran Maestro più importante della Massoneria italiana dell’ultimo cinquantennio – tale mi è sembrato, soggettivamente, di identificarlo – il suo stesso personaggio, attraverso la sua autobiografia, pareva davvero impresa (quasi) impossibile. Anche perché l’intento era tutt’altro che “agiografico”.
Eppure, avevo ben due scrivanie piene di libri e di documenti, alcuni dei quali ricevuti in via fiduciaria dal circuito interno del Grande Oriente d’Italia e dagli archivi documentati… Materiale riservato e – al di fuori di quegli archivi – introvabile.
Tre le fonti alle quali attingere: la versione di Di Bernardo, quella dei suoi oppositori (nel GOI, prima di tutto) e le corrispondenze ufficiali. Sullo sfondo le vicende meno edificanti della storia repubblicana e in mezzo… una storia da raccontare.
Accostandomi a Di Bernardo avrei potuto operare sulla falsariga della famosa intervista che da lui raccolse qualche anno addietro il noto giornalista Sandro Ruotolo, tesa a metterne in risalto il personaggio pubblico e storico, cioè il Capo della Massoneria italiana in un momento terribile per la storia del nostro Paese (stragi, mafia, etc.), con tutto ciò che ne derivava: conoscenza di uomini e di fatti rilevanti.
Certo, anche questo potevo fare e ho fatto, vista la ricchezza della documentazione in mio possesso, ma a me interessava di più raccontare l’esperienza morale di Di Bernardo: un uomo posto di fronte ai dilemmi di una vita vissuta da protagonista del suo tempo, in un ambiente per tanti aspetti ancora segreto o sconosciuto come quello massonico.
Oltre a ciò, mi era stata rivolta una richiesta precisa, direttamente dall’ambiente del Grande Oriente d’Italia che quelle fonti documentali mi aveva reso disponibili: «Aiutaci ad aprire un dialogo con il Gran Maestro dimenticato».
Credo di poter dire, senza falsa modestia, di aver centrato entrambi gli obiettivi.
Il Di Bernardo che ho raccontato è un uomo che ha voluto vivere rispettando i propri ideali filosofici ed i valori etici appresi dalla frequentazione libero muratoria. Egli accettò qualche compromesso? Il suo comportamento fu sempre lineare?
Considerino questo, coloro che hanno interesse, scorrendo anche il mio contributo, all’argomento: un simbolo molto significativo per la Massoneria è il nodo d’amore, formato da due tondi uniti per un punto. Simbolo matematico dell’infinito, esso ha una caratteristica particolare. Se lo si percorre interamente risulta comporsi di un movimento orario in un tondo e di un moto antiorario nell’altro, mentre il punto di unione ed inversione dello scorrimento è come una porta, un passaggio…
Questo passaggio ha il significato di una contraddizione. Una contraddizione che per un iniziato, quale è Giuliano Di Bernardo – ma oserei dire anche per ogni uomo – segna un “ponte” attraverso il quale è impossibile – nel corso della propria vita – non procedere. Questo “punto di inversione” è come se configurasse da un lato una morte dall’altro una rinascita.
Il poeta e massone Giuseppe Ungaretti scrisse: La morte / si sconta / vivendo. È la contraddizione che diventa elemento imprescindibile della vita. Anche della vita di un grande uomo. Ma cosa fa grande un uomo? Di Bernardo lo rivela nascostamente nella sua risposta, quando parla di nani e di giganti. La grandezza di un uomo non sta nel particolare, ma nel senso complessivo della sua vicenda umana. Tanto più se essa avrà saputo offrire un insegnamento morale ai suoi simili.
Così, anche chi è caduto in errore, anche chi ha fallito può sperare di lasciar qualcosa di sé, soprattutto se la caduta e il fallimento sono stati vissuti sopportandone il peso, cioè con piena assunzione di responsabilità, innanzitutto verso se stessi. Vissuti fino in fondo, oserei dire.
Ecco! Proprio questa “assunzione di responsabilità” fa dell’epoca di Di Bernardo – lontana, per quanto riguarda il Grande Oriente d’Italia, trent’anni – qualcosa di molto diverso dalla nostra. Era quello un tempo in cui ancora “si credeva” in qualcosa che meritava fede e sacrificio. E se ne sopportava interamente il carico.
Oggi, non avendo più nulla in cui credere – dico in generale, e sarei tentato di dire… purtroppo anche nelle Logge – nulla possediamo realmente. Tutto avendo mercificato, tutto abbiamo perduto, persino (spesso) la dignità. Quella stessa dignità oggi soggiogata – in troppi contesti – dalla volontà meschina di uomini meschini.
Sapevo l’inverso: diventare uomini – e divenirlo integralmente – significa sviluppare distacco verso le proprie imperfezioni, accettandone in pieno la consapevolezza, iniziare a pensarsi come esseri di fatto e non di diritto, ed in ciò scorgere quel legame di dipendenza che ci lega al tutto. Assumere questa dipendenza, fino in fondo, significa imparare a gustarne l’inevitabile amarezza… È questa la ricerca.
(Pubblicazione autorizzata dall’autore)