Vola, piccolo gabbiano, vola
sin dove si fondono cielo e mare,
e vento e onde cantano e piangono
l’accordo della nostalgia.
Vola nella mesta quiete
dove il mare giace silente
sino a quando di te la volontà e la speme
sconfiggeranno lo spazio infinito.
Vola, piccolo gabbiano, da colei
che più di tutte ti ha amato.
Leggero come un uccello è l’animo mio
se presto saremo uniti.
(Giordano Bruno, 1593)
di Orthelius
Giordano Bruno nacque nel 1548 a Nola, nel Regno di Napoli, e finì bruciato vivo 52 anni dopo, il 17 febbraio del 1600 in Campo de’ Fiori a Roma.
Era stato frate, fino all’abbandono dell’abito domenicano nel 1576, lettore e cattedratico in varie università europee. Da esule viaggiò in lungo e in largo per l’intero continente: da Napoli a Genova, poi Milano, Torino, Ginevra, Tolosa, Parigi (sotto la protezione di Enrico III di Valois, re di Francia), Londra (ad Oxford), Wittenberg (famosa per le 95 tesi luterane), Praga (alla corte dell’imperatore Rodolfo II d’Asburgo), Zurigo e Francoforte, in un vortice di esperienze multiculturali senza pari e fecondissime, soprattutto per quei tempi.
Fu anche autore, nel corso della sua vita, di numerosi testi. Cito tra i più importanti: La cena de le ceneri; De la causa principio et uno; De l’infinito, universo e mondi; De umbris idearum; Cantus Circaeus; Sigillus sigillorum; Cabala del cavallo pegaseo; De gli eroici furori e Spaccio de la bestia trionfante. Opere che ne decretarono la condanna di fronte al Tribunale dell’Inquisizione, prima, la tragica fine, poi, la fama di alfiere del libero pensiero, imperitura.
Ma addentriamoci nella storia del processo… che affonda le sue radici molti anni addietro il tragico epilogo…
Venezia e il tradimento
Siamo nell’agosto del 1591, dopo oltre quindici anni vissuti in esilio Giordano Bruno rientra da Francoforte in Italia; tappa di pochi giorni a Venezia poi subito a Padova (attratto dalla possibilità di occupare la Cattedra di matematica, che sarà affidata invece a Galileo Galilei); ha abiurato il cattolicesimo, ciò nonostante gravano sulla sua testa le scomuniche ulteriormente rimediate dalla Chiesa calvinista e da quella luterana, nonché la costante minaccia dell’Inquisizione: è infatti sospettato di eresia ariana fin dal 1576, quando fu aperto a Napoli un processo a suo carico.
Le ragioni dottrinali di Bruno mettono in dubbio alcuni dogmi imprescindibili della fede cristiana; eppure, con la sua filosofia, ha suscitato nel corso degli anni l’interesse di molti intellettuali e sovrani europei, che lo hanno sempre accolto e coperto.
«Nell’universo esiste una profonda unità, è impensabile credere che ogni parte non corrisponda al Tutto in una suprema armonia. La natura è viva e vivificata dal soffio divino. Tutte le cose sono nell’universo e l’universo è in tutte le cose. Noi in quello, quello in noi; e così tutto concorre in una perfetta unità … perché questa unità è sola e stabile, e sempre rimane; questo Uno è eterno.» (De gli eroici furori)
Questo, in estrema sintesi, il pensiero del Nolano.
Alla fine del marzo 1592 il nobile Giovanni Francesco Mocenigo, magistrato della Repubblica di Venezia, entusiasta delle conoscenze di Bruno, in particolare di quelle sulla memoria (l’arte della cosiddetta “mnemotecnica”), vuole impararle. Così invita il filosofo presso la sua dimora sul Canal Grande e, grazie ai buoni uffici del tipografo e editore Giovanni Battista Ciotti, ne diventa allievo.
Dopo pochi mesi, però, non è soddisfatto degli insegnamenti del Maestro, si sente tradito, crede che Bruno non voglia condividere con lui le proprie (presunte) “arti magiche”, insomma… che nasconda segreti. Il Nolano ne è alquanto infastidito, tenta di liberarsi da una situazione ormai sgradevole e prepara il suo ritorno a Francoforte, ma il gentiluomo si offende e fa di tutto per trattenerlo. Arriva persino a sequestrarlo in casa… ma Bruno non si piega. Mocenigo, a quel punto, lo denuncia all’Inquisizione.
«Esiste peccato più grave del tradimento degli amici? Del tradimento di coloro che ti hanno chiamato per apprendere, ti hanno elogiato, e poi consegnato alle avventure della sorte con un gesto di indolenza?»
Le accuse del nobile sono vaghe, senza prove. E soprattutto il Tribunale non si accontenta di un solo testimone. …Poi il Nolano sa come affrontare i giudici, la sua linea difensiva si rivela efficace ed il processo sembra avviarsi verso una possibile assoluzione.
Oltretutto bisogna considerare che l’Inquisizione non saprà mai che Bruno ha abiurato il cattolicesimo. Infatti, l’adesione al protestantesimo, avvenuta a Ginevra nel 1578, verrà alla luce soltanto nell’Ottocento, con il ritrovamento di alcuni documenti.
Passano altri nove mesi, finché giunge da Roma la richiesta del cardinale Giulio Antonio Santori, Grande Inquisitore: il detenuto deve essere trasferito, il processo si deve celebrare nella Città santa! È a tutti gli effetti una domanda di estradizione.
Nondimeno il Senato veneziano è molto attento alla propria autonomia giudiziaria, così inizialmente la richiesta viene respinta. Da Roma però insistono, interviene il nunzio pontificio Ludovico Taverna: è sollecitato un approfondimento del caso. Alle fine, dopo la relazione del procuratore Federico Contarini, l’accusa di eresia viene confermata. Si procederà con il relativo trasferimento: Giordano Bruno entra nelle carceri romane del Sant’Uffizio il 27 febbraio del 1593; sono trascorsi meno di due anni dal suo arrivo in Italia.
La Prima fase del processo romano
Le accuse formulate da Mocenigo contro Bruno sono molte. Le più gravi riguardano l’avere pensieri eretici sulla Trinità, sul Cristo, sulla Madonna, sulla transustanziazione. Poi il credere nella trasmigrazione dell’anima e nella pluralità dei mondi.
«Il Tutto è una sfera, anche Dio può essere così rappresentato. Il centro di questa sfera è ovunque, la circonferenza non si trova in nessun luogo. E la nostra Terra è viva!» (De immenso)
Durante il processo romano all’elenco delle accuse se ne aggiungono altre. Queste vengono mosse da un compagno di cella all’epoca della carcerazione veneziana, il frate cappuccino Celestino da Verona. Giovanni Antonio Arrigoni (questo il nome all’anagrafe del religioso) descrive il filosofo come un uomo falso, che formalmente si proclama pentito dei suoi errori, ma in realtà si prende gioco dei giudici e della religione; un bestemmiatore che ridicolizza i santi e indulge nei peccati della carne.
La denuncia di Celestino ha conseguenze gravi: invalida la difesa di Bruno, che poggia sull’esistenza di un solo testimone (il Mocenigo), e chiama in causa le attestazioni di altri quattro incarcerati, complicando ulteriormente la situazione.
Le accuse, in questo modo, iniziano a farsi circostanziate. Bruno, tra le tante imputazioni mossegli dai compagni di prigionia, avrebbe incolpato Cristo di peccare mortalmente quando fece l’orazione nell’Orto deli Ulivi, recusando la volontà del Padre con l’invocazione “sia rimosso da me questo calice” (come riportato in Matteo 26, 39); sarebbe andato contro le dottrine della Chiesa nel sostenere l’irricevibilità del mistero riguardante la verginità di Maria; avrebbe sostenuto la pluralità dei mondi, e per inciso che tutte le stelle sono mondi: mentre il credere che vi sia il solo mondo abitato dagli uomini “è grandissima ignoranza”; inoltre, avrebbe reputato Mosè mago astutissimo, che vinse facilmente i maghi di Faraone proprio in virtù della sua grande padronanza dell’arte magica; ed ancora, che il Patriarca finse quando affermò di aver parlato con Dio sul monte Sinai, sicché la Legge portata al popolo ebraico fu niente più che un’impostura. Vengono poi addossate a Bruno altre affermazioni: quella per cui il raccomandarsi ai santi sarebbe “cosa a dir poco ridicola e da non farsi per nessuna ragione”; un’altra avente ad oggetto Cristo, definito, con un’esclamazione, “un cane becco, un fottuto can” (e nel dirlo avrebbe alzato le mani, facendo – testuali parole degli accusatori – “segno di fiche al cielo”); infine, come conseguenza di tutto il resto, che “quello che crede la Chiesa, niente si può provare”.
Cosicché alla fine i capi d’accusa sono trentuno, e Giordano viene incolpato – in buona sostanza – di essere un uomo senza regole e senza religione; venendogli contestate non solo le proprie opinioni personali, ma i suoi stessi comportamenti, giudicati apostati.
Tuttavia, è da affermare che soprattutto le insinuazioni (giacché molto del suo pensiero era onestamente fissato negli scritti) erano assolutamente fasulle, provenendo da testimoni che non potevano esser reputati in alcun modo affidabili, poiché privi delle necessarie doti di credibilità. Mocenigo (il più autorevole degli accusatori) era smaccatamente spinto dal risentimento, mentre l’Arrigoni attaccava per paura, per invidia, e per ingraziarsi gli inquisitori, temendo stoltamente di esser a sua volta accusato da Bruno (il quale, dal canto suo, non ci pensava nemmeno, giudicando il religioso niente più che un imbecille).
La figura di questo frate francescano è tuttavia importante, poiché chiarisce bene la portata che l’Inquisizione romana intendeva dare alla causa improntata contro il Nolano, e le ragioni della successiva vicenda processuale.
Giovanni Antonio Arrigoni, infatti, era un chierico molto modesto, dall’ingegno mediocre e dai modi paranoici. Era già caduto una volta nelle mani dell’Inquisizione (a Roma, nel 1587), ed era stato costretto ad abiurare “de vehementi” (un tipo di ritrattazione pericolosa, dato che ammetteva che la presunzione di eresia fosse stata grave); anche per questa ragione la seconda carcerazione del 1592 a Venezia, come “relapsus”, cioè come colui che era ricaduto nell’errore dopo la prima abiura, lo poneva in una condizione particolarmente disperata: a questi soggetti il Tribunale inquisitoriale comminava per lo più la pena di morte, da eseguirsi mediante il fuoco, e solo nel caso in cui il condannato si mostrasse pentito, come segno di clemenza nei suoi confronti, la punizione poteva essere commutata nella decapitazione (o – ma bisognava essere davvero “fortunati” – nel servizio sulle galere o nel carcere perpetuo).
Questo personaggio, imprigionato dai comuni aguzzini con il grande erudito domenicano, cercò in ogni modo di intrattenere con questi un dialogo, ma le relative questioni filosofiche (quelle che suscitavano la curiosità di Celestino) erano completamente al di fuori della sua portata intellettuale, finendo per ingenerare nel compagno di cella un malcelato fastidio, e dentro di sé quel sentimento di cattiveria e vendetta che sempre pervade chi, troppo piccino per comprendere ciò che va oltre le proprie possibilità, finisce per accanirsi con esagerazioni e false accuse contro colui che in pratica… lo snobba!
Papa Clemente VIII era perfettamente conscio di questo. Tanto che l’Inquisizione romana, almeno all’inizio, non era affatto “contro” Bruno. Anzi, esistono svariate risultanze di come gli inquisitori non fossero affatto propensi a condannarlo, poiché ritenevano che i punti veramente importanti dell’intera faccenda non potessero risiedere nei pretesti dozzinali, portati da testimonianze dubbie ed ardite, ma permeassero l’ambito filosofico dell’attività dottrinale dell’imputato. Inoltre… c’era da aspettarsi che il Nolano sarebbe stato ben disposto a qualche abiura (già a Venezia, d’altronde, era stato alquanto possibilista), al fine di sistemare, con una bella figura per tutti ed in modi pacifici, l’intera questione.
Purtroppo, ciò che era da intendersi come un prudente riguardo nei suoi confronti, unito alla volontà del pontefice di innalzare il livello della diatriba su di un piano adeguatamente sapienziale (un piano, per così dire, più consono all’avversario che la Chiesa si trovava davanti), porterà a conseguenze infauste. Perché il ricercare nelle opere le prove decisive contro Bruno rivelerà come, per davvero, in esse si celassero gli snodi più indigeribili, almeno per gli stomaci inquisitoriali, della sua dottrina.
Non solo, bisogna anche considerare il dato storico: il processo al Nolano si instaura dopo la “controriforma”, cioè quell’insieme di misure di rinnovamento spirituale, teologico e liturgico con le quali la Chiesa cattolica riformò le proprie istituzioni secondo le deliberazioni del Concilio di Trento. In questo mutato contesto era importante per il clero, che aveva visto il suo ruolo mutare nei confronti della società del tempo, compiere un’indagine molto più attenta e capillare delle ragioni filosofiche portate da Bruno, dal momento che in ballo vi era una posta teologica molto maggiore che solo trenta o cinquant’anni prima (ricordo, infatti, che il Concilio di Trento si concluse nel 1563).
Per queste ragioni il papa ordinò che fossero ritrovati e studiati tutti i suoi scritti: una ricerca che si rivelerà, tuttavia, molto più complicata del previsto; pochi, infatti, erano i testi in possesso del Sant’Uffizio (mancava anche il celebre dialogo anticristiano di filosofia morale Spaccio de la bestia trionfante). In questo modo il processo subirà una battuta d’arresto di due anni, con la sentenza rinviata sine die.
La Seconda fase del processo romano
«È incredibile come gli uomini facciano fatica a liberarsi dalle diatribe religiose, dai finti misticismi, moralismi, odi. È come se continuamente ascoltassero una voce maligna che li allontana dal proprio bene. L’armonia è nel tutto, ma per giungere all’armonia occorre un salto di coscienza.» (De la causa principio et uno)
Aprile 1596, Clemente VIII dispone la creazione una Commissione di sei inquisitori che avrà il compito di esaminare le opere del filosofo. L’elenco dei libri non è completo, ma i giudici lo ritengono sufficiente, così alla fine dell’anno vengono presentate le censure.
Accade anche un altro fatto importante: due mesi più tardi si aggiunge ai membri del Tribunale, in qualità di Consultore, e quindi con funzioni preminenti, il gesuita Roberto Bellarmino, destinato al soglio cardinalizio (sarà elevato nel 1599), uno dei più rinomati teologi del tempo.
Bellarmino, nato in Toscana appena due anni dopo l’approvazione papale della Compagnia di Sant’Ignazio di Loyola, non era solamente un grande erudito in materia religiosa, ma era anche un predicatore loquace e combattivo (ex cattedratico di apologetica), tanto esperto dell’ortodossia cristiana quanto delle sue eresie. Un “osso” molto più duro, per Bruno, degli altri membri cardinalizi dell’Organo giudicante.
Prova ne è il fatto che con l’ausilio di Bellarmino l’attenzione della Commissione si concentra completamente sulle accuse di materia strettamente filosofica. Ed è un decisivo cambio di passo. Bruno difende le sue dottrine così come aveva fatto con l’Inquisizione veneziana: distingue le verità di fede, adatte all’uomo comune, dalle verità di ragione, terreno di ricerca degli scienziati, ma non convince i giudici. Serpeggia l’idea che stia solo prendendo tempo… La sensazione è che sia tanto disponibile a concedere le ragioni sulle questioni dal minor valore teoretico, quanto inflessibile allorquando ci si avvicini ai punti più caratterizzanti le proprie tesi dottrinali. …Ma è proprio su queste che ormai l’accusa punta il dito: considerando ingiustificabilmente riprovevoli non tanto le sue ammesse concupiscenze e qualche blasfemia pronunciata in carcere a Venezia (o su e giù per l’Europa), ma precisamente le stesse posizioni filosofiche, da ritenersi inequivocabilmente eretiche.
Il nodo si stringe: il Tribunale sottopone a Bruno otto “proposizioni ereticali” estratte dagli interrogatori e dai suoi libri, affinché le abiuri formalmente. Tra di esse, tesi sicuramente eretiche ex tunc: la posizione bruniana sull’anima del mondo e la materia prima; l’asserzione secondo la quale ad una causa infinita corrisponde un effetto infinito (che implicherebbe un Dio necessitato a produrre conseguenze peculiari alla propria essenza, quindi non onnipotente, stante tale limitazione, ed impossibilitato all’incarnazione, essendo questa – per sua propria natura – “storicizzata”, quindi finita); quella del ritorno dell’anima umana, dopo la morte, all’anima mundi; l’adesione alla teoria copernicana che prevedeva il moto della terra, contraddicendo le Scritture, che affermano invece che “la Terra sta mentre il Sole nasce e tramonta”; l’attestazione, data ne La cena de le ceneri, degli astri come di angeli e corpi animati razionali; la stessa attribuzione fornita alla Terra, immaginata con un’anima sensitiva e senziente data dalle leggi del suo moto; infine la dichiarazione, fornita nel De la causa, principio et uno, che l’anima sta nel corpo come “un nocchiero nella nave”, in contrasto con la definizione dogmatica, risalente al Concilio di Vienne del 1312, secondo la quale “l’anima razionale ed intellettiva è forma del corpo umano per sé ed essenzialmente”.
Questo argomento merita di esser inquadrato meglio, perché fondamentale nel dibattito che oppose Bruno ai suoi accusatori. Infatti, si contrastavano tra loro, e da lungo tempo, alcune tesi. Per Platone l’anima conduceva il corpo, poiché ne era il motore. E siccome nessun motore può condurre se non è altro da ciò che muove, l’anima doveva intendersi come altra cosa dal corpo: un “nocchiero” appunto (su questa linea stavano sant’Agostino e la successiva Scuola francescana). Aristotele, invece, sosteneva che nonostante ne fosse il motore, l’anima era in unità inscindibile con il corpo umano. E questo era anche l’avviso di san Tommaso D’Aquino, di conseguenza degli inquisitori che – ossequiosi – ne seguivano l’insegnamento.
Il vero problema sta nella possibile derivata: se l’anima è altro dal corpo, essa non appartiene primariamente a quel corpo, quindi se ne può andare in giro! Bruno credeva nella trasmigrazione delle anime, ritenendo che di “anima”, in realtà, ve ne fosse una soltanto e “totale”, quella universale, a cui tutte le altre appartengono come “accidenta”. Per la Chiesa no: Dio coopera con l’uomo alla creazione di corpi ed anime particolari. E pertanto essi – corpi ed anime – sono uniti nello stesso destino di… salvezza o dannazione!
Insomma… su queste questioni il cardinale Bellarmino non vuol lasciar adito a fraintendimenti, dimostrandosi un martello, e Bruno, incalzato dal Tribunale, non riesce più a difendersi con sufficiente efficacia. Così, logorato dai lunghi anni delle udienze e dalle infinite pause ed attese, dopo vari tira e molla cede, promettendo di ritrattare: le formule che utilizza, tuttavia, non soddisfano la Commissione. I giudici, allora, si dividono sulla valutazione del caso: alcuni insistono per reiterare la richiesta di una ritrattazione totale, altri propongono la tortura nella forma grave, al fine di ottenere la piena evidenza della colpevolezza (tra questi il confratello domenicano Ippolito Beccaria, uomo dipinto dalla storiografia come esaltato ed intransigente).
Lo scopo è quello di arrivare ad una abiura soddisfacente, ovvero ampia e completa, che pure salverebbe il Nolano dalla condanna a morte (potrebbe persino essere reintegrato nell’Ordine, dopo un periodo di detenzione non troppo lungo). Per i giudici significherebbe la vittoria della fede, ma anche un atto di sottomissione da parte dell’accusato all’autorità ed ai teologi del Sant’Uffizio, tale da giustificare l’adozione di una punizione meno severa.
Si giunge così al settembre del 1599: Bruno dichiara formalmente l’abiura, ma contemporaneamente presenta un memoriale a Clemente VIII nel quale mette in discussione tutte le sue ritrattazioni, scavalcando così a piè pari sia l’Organo giudicante sia il cardinale Bellarmino!
Questa volta il filosofo è deciso a non tornare indietro. Dunque al pontefice non resta che ordinare la conclusione del dibattimento e la consegna dell’imputato al braccio secolare.
L’8 febbraio del 1600 la sentenza viene letta al condannato: è la fine.
«Forse con maggiore timore pronunziate contro di me la sentenza, di quanto non ne provi io nel riceverla.»
Il 17 febbraio 1600 è un giovedì, all’alba Giordano Bruno viene condotto dalle carceri di Tor di Nona, situate alla sinistra del Tevere, a Campo de’ Fiori. Gli viene imposta la “mordacchia”, con la “lingua in giova” (cioè trafitta da un chiodo ricurvo), in modo che non possa proferir parola. Lì è spogliato, legato ad un palo, poi dato alle fiamme.
Gli ultimi anni della sua farraginosa vicenda processuale devono essere scandagliati più a fondo, per essere compresi. Spesso ricostruzioni frettolose (giustamente o ingiustamente anticlericali) omettono di evidenziare tutti i tentativi portati dalla Commissione giudicante per trovare il bandolo della complicata matassa, quello capace di sottrarre il filosofo al rogo, dimenticando di conseguenza anche il tentativo portato da Bruno di aprire un dialogo personale e diretto con il papa (Clemente VIII – in effetti – passava per un uomo con il quale “si poteva ragionare”), al di là delle prerogative degli inquisitori generali.
In questo, tuttavia, il Nolano non fu previdente, sopravvalutando la propria posizione, che restava pur sempre quella, di fronte alla Chiesa di Roma, di un eretico non ancora del tutto penitente, e non certo quella di un grande riformatore accreditato dalla sede apostolica ad addentrarsi – vuoi anche con una certa “libertà”! – in questioni teologiche sulle quali, evidentemente, il santo padre non era affatto disposto a transigere.
Ancora una volta può essere di soccorso il dato storico: Ippolito Aldobrandini, infatti, era sì un papa di vedute più larghe dei suoi predecessori, ma era anche un uomo molto spaventato. Riteneva che la Chiesa avesse di fronte, dopo lo scisma di Martin Lutero (collegato a motivazioni più afferenti ai “costumi” della Chiesa), un altro possibile scisma, molto più grave del precedente, perché generato nel seno stesso di quella “filosofia scolastica” che da secoli costituiva l’asse portante del magistero irraggiato nel mondo dalla cristianità attraverso i suoi maggiori centri culturali, con le Scuole collegate ai Monasteri ed alle Cattedrali.
A questo proposito ricordo che l’avventura umana di Giordano Bruno era partita proprio da uno di questi “cuori pulsanti della Chiesa”, il convento di San Domenico Maggiore a Napoli con la sua formidabile biblioteca, dove venivano regolarmente tenuti corsi di retorica, dialettica, metafisica e filosofia naturale, oltre – naturalmente – il corso ordinario di teologia.
Giordano Bruno, il Mago
Colui che la storica britannica Frances Yates, negli anni 60 del secolo scorso, ebbe il merito di riscoprire – però fraintendendolo – come “Mago”, era in realtà un puro filosofo ermetico, un neoplatonico. …Cioè, “Mago” sì, ma “Mago naturale”, secondo il significato logico preso dal Libro V dei Topica di Aristotele (quello riservato – nel complesso dei ragionamenti sulla dialettica – alla figura argomentativa della “proprietà”). Non lo “Stregone indovino” della letteratura popolare, ma il Sapiente, dotato della capacità di agire secondo i dettami della “magia matematica”, quelli illustrati fin dal 1531 nel De Occulta Philosophia di Heinrich Cornelius Agrippa, che ne facevano uno studioso sperimentale della natura su basi spirituali.
Uno Scienziato, dunque, in grado di segnare uno spartiacque ben preciso tra il pensiero aristotelico ed un mondo “nuovo”, nel quale ciascun individuo è specchio dell’universo, ed in cui ciascuna monade è in realtà lo stesso reticolo di relazioni che va a comporre il Tutto.
In questa catena d’unione, che corre dall’atomo fino ai “fuochi” più lontani, l’individuo umano, con la sua coscienza, si colloca in una sorta di zona d’ombra; ma non un’ombra caduca e negativa, come nell’interpretazione aristotelica, che l’aveva equiparata alla tenebra ed all’errore, bensì uno spazio vitale in cui, al contrario, è capace di celarsi il Vero (che non è – tout court – l’“intero”, come ci avrebbe suggerito, quasi quattrocento anni dopo, il letterato e filosofo argentino Jorge Luis Borges attraverso il suo racconto Funes, ma propriamente l’inverarsi ed il “significarsi” dell’Uno nelle sue parti).
Almeno a patto di saper riconnettere le vie di comunicazione tra il “basso” e lʼ“alto”, nel superamento della fallace categorizzazione “materia”/“spirito”, a favore di un altro tipo di concettualizzazione, quella idonea a schiuderci l’orizzonte di una materia infinita, vitale ed eterna.
Queste, nell’insieme, le ragioni della grandezza di Bruno, e pure i motivi della sua generale condanna da parte dei poteri religiosi del tempo, anche quelli luterano e calvinista, non solamente quello cattolico. Perché se è vero che nell’universo mondo bruniano l’anima divina permea ogni cosa (asserzione che oggi parrebbe persino commendevole), nondimeno restava da domandarsene il modo… e la risposta fornita dal Nolano era chiara: «In modo immanente». Quando per tutti, al contrario, Dio era pura trascendenza: un soggetto creatore del mondo come “altro da sé”, che in esso sì si “rivela”, ma non lo colma.
Non è però ancora questo il punto (pur nei suoi risvolti problematici). Il vero dato originale ed inaudito in Giordano Bruno è proprio il concetto assolutamente nuovo di materia rispetto alla tradizione precedente.
Difatti Aristotele considerava questa come la possibilità della forma; ed al bravo teologo non restava che immaginarla come un pezzo di cera, sul quale il buon Dio non aveva che da imprimere le strutture, le forme eterne… tali, ad esempio, le “idee” di Platone, che plasmano ciò che è originariamente indeterminato. Un “non essere”, quindi, o meglio: un “non essere ancora”, un “caos primordiale” (la “nutrice prima”, diceva l’allievo di Socrate, che però la intendeva passivamente: un “ricettacolo oscuro”)…
No, in Bruno non è così. Egli afferma già in De la causa, principio et uno che la materia è origine positiva di tutta la realtà. Di più, la sostanza attiva della quale sono fatte tutte le cose (“infinita potenzialità e infinita presenza”): è il moderno principio cosmologico, introdotto da Albert Einstein nel 1917.
Non più, quindi, la materia sub-lunare, corrotta e corruttibile, distinta dalla perfezione cristallina delle sfere sovra celesti. Non più la Terra al centro dell’universo, con la sua fissità a governare il moto degli astri, ma il moto di tutti intorno a tutti, il centro in ogni luogo… la materia come “eterno principio vivente ed onnipotente”, energia formatrice di ogni cosa.
In questo spazio non c’è più né corpo né spirito, perché essi sono vicendevolmente entrambi. L’uno estrema contrazione, l’altro estrema dilatazione, ma sempre della stessa cosa. Cosicché anche il punto più piccolo partecipa alla dignità ed alla potenza dell’infinitamente grande.
Com’è ovvio, tutto ciò non poteva essere neppure concepito dai giudici inquisitori, proprio perché i corollari erano invece compresi perfettamente: una materia siffatta non aveva più bisogno di Dio, né della Trinità cristiana; così progettata, si sottraeva pure alla necessità del Cristo redentore, perché – infine – quanti “Cristi redentori” ci sarebbero voluti per salvare gli infiniti mondi bruniani? Ma poi… quale salvezza per una materia congeniata per essere fin dal principio eternamente salva?
Nessuna escatologia, quindi, nell’universo del Nolano, semmai il problema – molto più moderno – della “conoscibilità”… Ma dove mancano finalità escatologiche – si capisce – finisce per risultare inutile, ab origine, la stessa idea di “fede”. Per questo Giordano Bruno fu condannato e messo al rogo.
Secoli più tardi questi concetti – pur declinati diversamente – saranno sviluppati sulla scena filosofica europea da Hegel, attraverso la sua “dialettica” (tesa ad indagare il “movimento contraddittorio” tramite il quale l’Assoluto si manifesta nel reale), fino a sfociare, nella seconda metà del secolo scorso, e dopo essere passati per tutto il filone fenomenologico di Husserl (la scienza dell’Essere come relazione tra il mondo e la coscienza che lo esperisce), Heidegger (il tentativo d’esplorazione della differenza ontologica) e tanti altri, nell’analisi puntuale di un altro pensatore italiano, il bresciano Emanuele Severino, con il suo discorso – durato tutta la vita – intorno alla “struttura originaria”, il luogo già da sempre aperto al senso incontrovertibile della Verità. Una ricerca capace di affondare un colpo micidiale fin nel cuore del nichilismo della civiltà occidentale, quello che appare nella forma rovesciata del “principium omnium firmissimum” del Libro IV della Metaphysica di Aristotele.
Giordano Bruno, l’Esempio
È allora lecito domandarsi quale sia oggi l’eredità di Giordano Bruno. Quale lascito ci consegni la sua figura ad oltre quattro secoli dalla propria scomparsa terrena.
Filippo Bruno, questo il nome da laico di Giordano, fu tante cose insieme: un dotto, un peccatore, un teologo esoterico, uno scienziato irriducibile, un avventuriero. Per questo non ci può interessare di lui soltanto la figura del martire, ed è sempre per questa ragione che bene il Gran Maestro Ettore Ferrari lo raffigurò, nel Monumento di Piazza Campo de’ Fiori a Roma (Monumento voluto dal Governo Crispi e sostenuto nel tempo da ben due comitati studenteschi, cui aderirono anche grandi personalità della cultura internazionale), incappucciato, a sottolinearne l’aura di mistero.
A distanza di oltre centotrent’anni da quella posa, se davvero ci interessa un dialogo con il Nolano, allora in lui dobbiamo riconoscere una personalità importante del rinascimento e della cultura italiana, che insieme a Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e Galileo Galilei, indiscutibilmente fonda l’origine del pensiero moderno.
José Saramago, in uno scritto a lui dedicato (pubblicato nella raccolta A Bagagem do Viajante del 1973), spoglia il filosofo del simbolismo legato alla sua figura, per interrogarsi solamente sulle grida di Filippo, allorché le lingue di fuoco sprigionate dal rogo ne lambirono la pelle: «Giordano Bruno gridò?»
E se gridò, l’abbiamo sentito? E se non l’abbiamo sentito, qual è – chiediamoci ancora una volta – il suo lascito nelle nostre menti e nostri cuori? Ovvero, dove sta la nostra testimonianza di fronte al suo dolore?
Un grande Massone come Giovanni Bovio, pronunciando il discorso per l’inaugurazione del Monumento in Campo de’ Fiori, nel giugno 1889, ebbe ad affermare: «Molte sono ancora, certo, molte e deformi le ipocrisie dominanti», eppure aggiunse: «Onorare Bruno significa che gran parte di lui è qui, viva e parlante in quella filosofia della natura che non è soltanto una dottrina, ma è un destino».