NECESSITÀ E LIMITE DELLA CONOSCENZA SCIENTIFICA
di Giuliano Di Bernardo
Analizzando i rapporti fra Massoneria e religione, è emersa la preoccupazione della Gran Loggia Unita d’Inghilterra che, in certi ambiti massonici, si ritenesse di conferire alla Massoneria un fondamento religioso. Per evitare fraintendimenti, la Massoneria inglese ha ribadito, mediante la “Dichiarazione” che abbiamo già esaminato, che la Massoneria non è una religione. All’interno della società massonica, tuttavia, si dà un’altra tendenza (o tentazione), diametralmente opposta a quella religiosa, che riguarda il positivismo. Mentre con la prima si cerca di rafforzare la valenza religiosa del G.A.d.U., con la seconda si tende verso il suo più radicale indebolimento, fino a raggiungere la sua negazione. La tendenza positivistica si presenta, perciò, come la riaffermazione di una concezione immanente della Massoneria, la quale porta, nella forma più estrema, all’ateismo.
Il positivismo ha esercitato, e ancora esercita, notevole influenza sul pensiero massonico. Infatti, autorevoli positivisti, nella seconda metà dell’Ottocento, da M. Littré a E. H. Haeckel, hanno svolto un ruolo, a volte determinante, nelle scelte di fondo di alcune Massonerie. Basti pensare all’influenza esercitata da Littré sulla decisione, presa dal Grande Oriente di Francia nel 1877, di abolire la formula del Grande Architetto dell’Universo, che comportò la perdita del riconoscimento della Gran Loggia Unita d’Inghilterra. Si pensi ancora, per restare a casa nostra, al ruolo svolto da Ausonio Franchi nel Grande Oriente d’Italia attraverso il Rito Simbolico. Almeno per queste ragioni è importante esaminare i principi del positivismo, per stabilire se, e fino a che punto, vi sia compatibilità tra esso e il pensiero massonico.
È da precisare che il positivismo è qui inteso come categoria concettuale e non nel suo sviluppo storico. Pertanto, le riflessioni che seguono si riferiscono sia al positivismo ottocentesco di Auguste Comte sia al positivismo logico.
Il termine «positivismo», coniato da Claude-Henri de Saint-Simon, poi adottato e imposto da Auguste Comte, indica un indirizzo filosofico largamente diffuso nella seconda metà dell’Ottocento e che ebbe diverse manifestazioni, dal «positivismo sociale» di Saint-Simon e Comte, al «positivismo evoluzionistico» di Spencer, fino alla filosofia di Stuart Mill. Esso creò un’atmosfera culturale di forte interesse per la scienza, i suoi problemi e i suoi metodi, favorendo, altresì, il costituirsi di nuove discipline scientifiche, quali la psicologia e la sociologia.
Per comprendere le caratteristiche generali del positivismo è opportuno esplicitare, innanzi tutto, in che modo esso si pone nei confronti del problema riguardante la portata conoscitiva della ragione umana e la validità di determinati strumenti di conoscenza. Il positivismo rappresenta, perciò, un certo atteggiamento filosofico rispetto alla conoscenza umana. In generale, esso dice quali contenuti, impliciti nelle affermazioni concernenti il mondo, meritano di essere chiamati sapere. In conseguenza di ciò, esso distingue tra controversie filosofiche e scientifiche che val la pena di svolgere e di approfondire e questioni che, ponendosi al di fuori di tale ambito, non meritano alcuna considerazione. Sulla base di tale criterio i positivisti pongono una linea di demarcazione fra ciò che è razionalmente discutibile e ciò che non lo è. Tale linea viene espressa dal principio secondo cui la conoscenza umana è limitata sostanzialmente alla pura base empirica: qualsiasi idea genuina deriva dall’esperienza, per cui ogni supposizione su esistenze nascoste, di cui le forme empiriche di esistenza non sarebbero che manifestazioni, è assolutamente inattendibile. Il mondo esterno è indipendente dal soggetto conoscente. Non si danno conoscenze a priori che prescindono dall’esperienza. Compito della scienza, perciò, è quello di conoscere le leggi invarianti del mondo esterno. Il linguaggio è l’espressione neutrale di tali leggi. Posta la distinzione tra fatti e valori, la scienza si occupa solo dei primi, mentre i valori rientrano nella sfera della soggettività (espressione di regole, ragioni, fini, intenzioni ecc.), di cui si ammette l’esistenza ma solo nella misura in cui è riducibile al dato osservabile. Il senso coincide con la verificabilità. Non esiste senso al di fuori di ciò che è empiricamente verificabile: l’ammettere un senso al di là di esso significherebbe varcare il ponte che dalla scienza porta alla metafisica. Il ricercatore altro non è che il fedele trascrittore di ciò che si dà (e si può esperire) nella realtà.
Da queste assunzioni gnoseologiche discende la convinzione della fondamentale unità dei metodi di conoscenza. I positivisti ritengono che le scienze naturali più progredite, come, in particolare, la fisica e la matematica, rappresentino il più alto sviluppo scientifico e, di conseguenza, assurgano a criterio cui rapportare le altre scienze, determinandone il grado di maturità. È da questo confronto che le scienze umane e sociali, come la sociologia, la psicologia, l’economia, la storia e simili risultano essere, sia per imprecisione dell’oggetto, sia per carenza di metodi rigorosi d’indagine, ancora in uno stato che ha appena superato quello prescientifico, ma che è ben lungi dal raggiungere la perfezione delle scienze naturali esatte. Da questa convinzione deriva l’auspicio di un impiego sempre maggiore, nelle scienze umane e sociali, di strumenti già validamente sperimentati in altri settori dell’indagine scientifica. In definitiva, le scienze della natura diventano il modello metodologico per lo sviluppo delle scienze umane e sociali. Il positivismo, tuttavia, va oltre questa dichiarazione ed esprime la speranza che ulteriori progressi portino alla graduale eliminazione delle differenze delle singole scienze fino a ridurle tutte a una sola scienza.
Al riguardo si è spesso ritenuto che la fisica sarebbe diventata questa unica e vera scienza perfetta, poiché essa – tra tutte – ha elaborato il metodo d’indagine più rigoroso.
Si è venuta a formulare, in questo modo, l’ipotesi generale della fondamentale riducibilità di qualsiasi termine scientifico ai termini della fisica.
Queste assunzioni gnoseologiche, trasferite nella fondazione delle scienze umane e sociali, hanno avuto, e continuano ad avere, grande influenza. In primo luogo si afferma che il mondo sociale presenta lo stesso ordine di quello naturale, per cui esso può venir indagato con la stessa metodologia. In questo senso il mondo sociale è dato come oggettivo, per cui il compito delle scienze umane e sociali sarebbe quello di conoscerne le leggi invarianti. Il ricercatore deve tendere alla conoscenza dei processi effettivi della società come se gli fossero estranei, quindi indipendenti dalla propria interpretazione.
Nella fondazione positivistica delle scienze umane e sociali l’oggetto di studio non è l’azione ma il fatto. È qui che si rivela il maggior punto debole di tutta la costruzione positivistica: il parlare di fatti sociali, in analogia con quelli naturali, ha il significato di eludere il complesso problema connesso con le ragioni dell’azione e, quindi, con valori, fini, intenzioni, ecc.
Se, tuttavia, per fatto s’intende l’azione (e la differenza è solo terminologica), allora tutto ciò che si può sostenere, dopo aver negato un senso alle ragioni, è che le azioni sono correlate l’una rispetto alle altre in modo meccanicistico: allo stimolo di un’azione corrisponderebbe una risposta da parte di un’altra azione. Questo modo d’intendere l’azione non è semplicemente una descrizione parziale di essa, quanto, piuttosto, il presupposto che preclude la possibilità di dare un senso all’azione stessa.
Secondo il positivismo, il mondo sociale viene descritto sulla base di un linguaggio osservativo neutrale, operante secondo rigorosi calcoli logici, capace di esprimere la conoscenza delle leggi della società. Il ricorso a un tale linguaggio garantirebbe alle scienze umane e sociali un carattere di oggettività e fornirebbe una rappresentazione del mondo sociale neutrale rispetto alle intenzioni, ai valori e ai fini.
Indubbiamente il programma positivistico di fondazione delle scienze umane e sociali è molto ambizioso e non a caso la sua influenza è stata notevole. Tuttavia, esso non è riuscito a fornire leggi della società aventi certezza, portata conoscitiva, capacità di spiegazione e di previsione simili a quelle caratterizzanti le scienze naturali. È proprio dal fallimento di questo programma che emergono le reazioni contro il positivismo, reazioni che possiamo caratterizzare globalmente col termine «ermeneutica».
Secondo la prospettiva ermeneutica, nelle scienze umane e sociali, il compito fondamentale della conoscenza consiste nel porre le condizioni di possibilità di ogni comprensione del mondo sociale. Tale comprensione avviene mediante il conferimento di senso non soltanto alle azioni (individuali e sociali) che vengono realizzate nella società, ma anche a tutto ciò che rappresenta, nella sua complessità, la concezione generale del mondo, nel cui ambito si danno le ragioni che giustificano e spiegano l’accadimento di quelle azioni. È importante sottolineare l’importanza determinante dell’azione del soggetto in quanto portatore di contenuti che si rifanno alla sua interpretazione della realtà. È conseguenza di ciò che le azioni degli uomini vengono a essere dotate di senso e tale senso è comunicabile intersoggettivamente attraverso il linguaggio, continuamente in evoluzione, che esprime anche i contenuti soggettivi. L’azione, pertanto, non è esplicabile se non si fa riferimento a categorie soggettive, come quelle di intenzione, fine, regole, valori e simili. L’azione, quindi, si può spiegare attraverso i contenuti di coscienza dell’agente, che sono legati alla sua visione del mondo. Il senso delle azioni, quindi, dipende da questi contenuti, ed essi contribuiscono a costituire il mondo sociale. Il linguaggio non è la rappresentazione «neutrale» di tale mondo, ma è esso stesso, in quanto espressione del senso dell’azione, costitutivo delle azioni stesse in quel mondo. Il linguaggio, perciò, costruisce il mondo sociale, il quale non può essere conosciuto indipendentemente dai concetti inerenti al linguaggio e alla loro dotazione di senso soggettivo. Del mondo sociale, così costituito, i soggetti possono avere interpretazioni diverse, proprio per il fatto che i loro contenuti di coscienza non sono gli stessi. Nella prospettiva ermeneutica il senso ha un ambito molto più ampio rispetto a quello riconosciuto dai positivisti alle scienze umane: esso non deriva solo dall’esperienza ma anche dalla generale interpretazione della realtà. Rispetto all’indagine che sto svolgendo sulle basi filosofiche del pensiero massonico, la prospettiva ermeneutica costituisce lo sfondo generale da cui non è possibile prescindere.
Il positivismo, nel delimitare l’ambito semantico dei termini «conoscenza» e «scienza», ha sempre combattuto contro affermazioni metafisiche di ogni genere, ossia contro quel tipo particolare di riflessione che non fosse in grado di giustificare i propri risultati sulla base di dati empirici, o che formulasse giudizi che l’esperienza non può contraddire. Pertanto, secondo il positivismo, tutte le idee difese dalla metafisica tradizionale, non essendo sorrette da una base empirica, sono fantasticherie identificabili in proposizioni assolutamente prive di senso. Il positivismo, perciò, critica sia le concezioni religiose del mondo sia la metafisica del materialismo, e muove alla continua ricerca di una prospettiva scevra da ogni presupposto metafisico.
Conseguenza dei suddetti atteggiamenti contro la metafisica e la filosofia tradizionale è la negazione di validità conoscitiva ai giudizi di valore e alle espressioni normative. Secondo i positivisti nell’esperienza non si danno oggetti, eventi o comportamenti che si possano caratterizzare come «buoni» o «cattivi», «giusti» o «ingiusti», così come non esistono esperienze che possano costringerci ad accettare, con l’ausilio di operazioni logiche, affermazioni riguardanti ciò che «si deve» o «non si deve» fare. Così, per esempio, il giudizio secondo cui la “vita umana è un valore assoluto insostituibile” non può essere giustificato in alcun modo sulla base dell’esperienza; esso può essere accettato o rifiutato, ma, in entrambi i casi, si deve riconoscere l’arbitrarietà della scelta. Possiamo, perciò, formulare giudizi di valore sul mondo e sull’uomo, ma non ritenere che essi siano giustificabili scientificamente o che possano essere fondati su qualcosa che non sia il nostro arbitrio. In generale, non possiamo accedere alla sfera dei valori tramite l’esperienza. In tal modo, i giudizi di valore, poiché non sono né proposizioni descrittive, né tautologie logiche, sono insignificanti. La scienza è neutrale di fronte alla sfera dei valori e questa neutralità è di principio e non limitata a una certa fase dello sviluppo scientifico. Anche per i valori (e per il dover essere in generale) valgono le stesse considerazioni svolte dai positivisti nei confronti della metafisica. Tuttavia, anche se si nega al dover essere un qualsiasi fondamento di senso, si riconosce ai valori una funzione strumentale all’interno di alcune scienze sociali empiriche, come la psicologia o la sociologia. Si esprime, in tal modo, la convinzione che l’etica (e tutte le discipline normative) sia una branca delle scienze sociali, ove essa svolge un ruolo di orientamento dei comportamenti dell’uomo, ma si viene, allo stesso tempo, a negarle qualsiasi autonomia. Da ciò segue che può esistere una sociologia scientifica dei costumi, una storia delle dottrine etiche o una psicologia morale, ma non un’etica scientifica autonoma.
Sul piano politico e sociale, il positivismo si presenta come prassi pedagogica nella lotta contro gli irrazionalismi che turbano la vita sociale. Esso, pertanto, rivendica il ruolo di diffondere fra gli uomini un atteggiamento scientifico rispetto alle proprie concezioni del mondo, contribuendo così all’eliminazione dei pregiudizi irrazionali e dei fanatismi ideologici. La diffidenza nei confronti delle ideologie nazionali al termine del primo conflitto mondiale contribuì a far accettare e diffondere tra gli intellettuali l’uso della verifica scientifica come criterio per stabilire la validità delle dichiarazioni ideologiche. In tal modo, si credeva di difendersi dalle violenze ideologiche e di diffondere lo spirito di tolleranza nella vita sociale democratica. I positivisti avevano fiducia che l’atteggiamento dell’intellettuale, le cui convinzioni erano sempre basate sul rigore del pensiero scientifico, sarebbe diventato un modello verso cui ispirare l’educazione di tutti gli uomini. Essi, pertanto, riconoscevano al loro programma notevoli qualità pedagogiche, e lo ritenevano capace di inculcare nella mente degli uomini tolleranza, moderazione e responsabilità. Dal punto di vista politico, la maggior parte dei positivisti, nella misura in cui avversava la dottrina fascista e razzista, si sentiva vicina alle idee socialdemocratiche. Essi erano interpreti di quell’atteggiamento umanitario contro la devastazione di guerre sanguinose e speravano che la diffusione della razionalità scientifica avrebbe mitigato le conseguenze disastrose delle ideologie. La generalizzazione e la radicalizzazione di tale speranza portavano alla nascita dell’utopia secondo cui l’umanità, utilizzando il pensiero scientifico, avrebbe definitivamente sconfitto l’irrazionalità delle ideologie e assicurato all’uomo benessere e felicità.
Dopo aver presentato, nelle linee generali, le nozioni fondamentali del positivismo, esaminiamo le influenze che tali idee hanno esercitato, direttamente o indirettamente, sulla Massoneria. Abbiamo visto sopra che il positivismo muove dal presupposto che, se si danno scienze dell’uomo, esse non possono che essere scienze empiriche. Da ciò discende l’importante conseguenza che l’uomo, come oggetto di indagine scientifica, viene assimilato agli oggetti delle altre scienze empiriche. La differenza che si può porre tra l’oggetto uomo e l’oggetto fisico in generale è essenzialmente una differenza di grado: l’uomo, rispetto agli altri oggetti del mondo esterno, è un oggetto più «complesso». Tale differenza di grado non giustifica, perciò, una metodologia delle scienze umane e sociali diversa da quella in uso nelle scienze naturali. Nello studio di tale «complessità» non rientrano, secondo i positivisti, categorie come quelle di «intenzionalità», «fine», «valori» e simili. Di conseguenza, si viene a negare all’uomo la capacità progettuale, ossia la possibilità di concepire progetti (da solo o con altri uomini) sulla base di un fine e di una tavola di valori condivisi. Dalla negazione della progettualità discende la negazione del progetto di perfezionamento iniziatico che rappresenta, viceversa, un principio imprescindibile del pensiero massonico. La concezione positivistica si preclude, perciò, la possibilità di comprendere e spiegare l’azione (anche massonica) dell’uomo sulla base di ragioni intenzionali e finalistiche.
Da questa concezione, discende un altro limite fondamentale che la rende ulteriormente inaccettabile al pensiero massonico: affermando che l’unica «immagine» valida dell’uomo sia quella che viene acquisita e formulata attraverso i soli contributi delle scienze empiriche che studiano l’uomo, si viene a negare la possibilità di assumere tale immagine come «ideale», ossia punto di riferimento per l’uomo stesso nella realizzazione della sua progettualità. L’uomo agisce non soltanto per il conseguimento di determinati fini, ma anche e soprattutto sulla base di «un’immagine di sé», che viene assunta come ideale e con la quale si confronta continuamente nella progettazione delle sue attività. Rispetto a ciò il positivismo può fornire un’immagine dell’uomo così come si dà, ma non come dovrebbe essere: in esso non esiste alcuna possibilità di distinguere il piano dell’essere dal piano del dover essere. L’importante conseguenza che discende da tale limite è che, nel positivismo, non può esservi un’antropologia filosofica. Come ho mostrato nelle Lezioni precedenti, l’antropologia filosofica ha a che fare con un’immagine globale dell’uomo, fondata sulla sua natura, la quale è proiettata verso un fine. Poiché nel positivismo l’immagine dell’uomo è esclusivamente quella che risulta dall’apporto complessivo delle singole scienze empiriche che lo studiano, vengono a mancare sia la dimensione totalizzante (l’orizzonte della totalità) sia la dimensione del dover essere, e quindi la possibilità di fondare un’antropologia filosofica. Possiamo dire, rispetto alle antropologie massonica e cristiana, che «l’antropologia filosofica positivistica» è un insieme vuoto, ossia privo di elementi costitutivi.
Queste conclusioni teoretiche sono esprimibili anche attraverso le difficoltà in cui si è imbattuto il positivismo quando si è cimentato con la dimensione etica dell’uomo. Abbiamo visto sopra, infatti, che a questo proposito il positivismo ha sostenuto, almeno attraverso i contributi di suoi autorevoli esponenti, la riducibilità dell’etica (e delle discipline normative) a determinate scienze sociali empiriche (la psicologia o la sociologia). Ebbene, tale riduzione, se da una parte ha messo in evidenza il condizionamento sociale dell’etica, dall’altra ne ha distrutto ogni forma d’autonomia. Anche questo risultato teorico è inaccettabile per il pensiero massonico, che ricerca invece nell’etica (autonoma) la fonte di legittimazione delle sue azioni e dei suoi progetti.
Esiste un’altra difficoltà. Anche se negano, sul piano teorico, l’autonomia dell’etica, i positivisti parlano di miglioramento dell’uomo e quindi ammettono una qualche precomprensione di carattere etico. Tale miglioramento dell’uomo sarebbe connesso principalmente col progresso scientifico e con le «buone» applicazioni tecnologiche di esso. Ebbene, per dire che il miglioramento dell’uomo è dovuto alle conoscenze scientifiche (e alle sue applicazioni), occorre partire dal presupposto che la conoscenza scientifica, in quanto tale, è un bene. Ma abbiamo visto che dall’esperienza non possono derivare giudizi di valore, per cui si sarebbe costretti, per valutare, a uscire dall’esperienza violando un principio basilare del positivismo. Inoltre, queste difficoltà diventano ancora più evidenti se si considerano le applicazioni tecnologiche. In base a che cosa, infatti, si può affermare che un’applicazione tecnologica è buona? Per rispondere occorrerebbe partire da una nozione di bene che è indipendente da quanto viene dichiarato dalla scienza. La scienza può dire, tutt’al più, quando siamo di fronte ad applicazioni conformi alla metodologia scientifica, ma non può dire che essa è buona indipendentemente da un fine che è buono in sé. Anche in questo caso, la nozione di miglioramento rinvia a un giudizio di valore che il positivismo, sulla base delle sue assunzioni teoriche, non può ammettere.
Queste difficoltà mettono in luce l’inadeguatezza, rispetto al pensiero massonico, di alcuni principi positivistici come la riduzione del dover essere all’essere. Conseguenza di tutto ciò è che la concezione positivistica è fondamentalmente immanente. È vero solo ciò che possiamo indagare attraverso il metodo scientifico, ma, poiché esso ha un fondamento empirico, è vero solo ciò che appartiene al piano dell’esperienza. Tutto ciò che trascende l’esperienza non ha alcun valore di verità (è insensato). Perciò non si dà una dimensione trascendente. Per quanto riguarda il nostro discorso sulla Massoneria è interessante sottolineare che la negazione della trascendenza non è esclusivamente negazione della valenza ontologica di essa, ma è anche negazione della sua valenza assiologica, ossia di quell’unica valenza che è richiesta come requisito minimale dalla concezione massonica, la quale ammette, in base alla tesi del “regolativismo non esclusivo”, che un massone possa accettare l’esistenza di un dio dato ontologicamente, essendo il Grande Architetto dell’Universo (G.A.d.U.) inteso almeno come un principio trascendente regolativo. Ciò vuol dire che la Massoneria pone l’accettazione dell’ordine etico, orientato al G.A.d.U., come fine e quindi come trascendenza. I principi etici sono garantiti proprio dall’assunzione del G.A.d.U. almeno come principio regolativo. Mentre per il positivismo non si dà esperienza etica valida (sensata) che non sia riconducibile al piano dell’esperienza sensibile (naturalistica), la Massoneria riconosce un’etica che, non essendo riducibile all’ordine empirico, viene giustificata e garantita dall’assunzione del G.A.d.U. come principio regolativo. Come conseguenza di ciò i principi etici vengono ad essere l’espressione non tanto di ciò che l’uomo di fatto sceglie, come sostiene il positivismo, quanto, piuttosto, l’espressione di ciò che egli sceglie sulla base della propria volontà orientata validamente al bene. La trascendenza, intesa almeno in senso assiologico, è elemento costitutivo tipico del pensiero massonico, mentre non lo è della concezione positivistica. Da questo punto di vista, fra Massoneria e positivismo vi è una profonda incompatibilità (essi vanno in direzioni opposte). La Massoneria, perciò, si pone a metà strada fra positivismo (inteso come espressione di un immanentismo radicale), da una parte, e religione (intesa come espressione esclusiva di una trascendenza forte in senso ontologico), dall’altra. La Massoneria, perciò, non è né positivismo, né religione.
Le riflessioni fin qui svolte consentono di caratterizzare un aspetto particolarmente importante della scienza: quello della responsabilità. Per intenderlo correttamente è necessario esplicitarne le origini e gli sviluppi più recenti. Nel mondo in cui viviamo assistiamo molto spesso al verificarsi di eventi esemplari, ad esempio le manipolazioni genetiche sull’uomo, che inducono a riflettere sulla scienza e le sue finalità. Il problema di fondo che emerge, al riguardo, è il seguente: la scienza è cosa buona in sé, nel senso che essa è completamente indipendente dalle conseguenze che potrebbero discendere dalle sue applicazioni, oppure essa ha senso solo nella misura in cui contribuisce anche allo sviluppo economico, sociale, politico, etico dell’uomo?
Fin dalle sue origini moderne, la scienza porta con sé la rivendicazione di un diritto umano fondamentale: quello di ricercare liberamente. In tal senso essa rappresenta il concreto adempimento dell’uomo a perseguire la ricerca della verità senza i limiti imposti dall’autorità dello Stato o dai dogmi religiosi. Perciò, lo sviluppo della scienza moderna è reso possibile da un atteggiamento di libero pensiero che ha profondamente influenzato la cultura occidentale negli ultimi due secoli.
La richiesta di libertà per la scienza e le sue applicazioni trova una valida giustificazione nel principio di tolleranza in base al quale lo scienziato assume un atteggiamento di liberalità nei confronti di tutti coloro che, indipendentemente dalle differenze di lingua, cultura e religione, appartengono alla comunità scientifica. La tolleranza diventa, a sua volta, il presupposto della universalità. Lo scienziato, che è convinto assertore della libertà, della tolleranza e dell’universalità, fa assurgere questi principi a categorie fondamentali di interpretazione non solo della scienza, ma di tutta la realtà. Conseguenza di ciò è che la scienza si presenta come espressione della conoscenza pubblica, aperta al dibattito e alle riflessioni sulla base di competenza professionale e di rigore metodologico. Lo scienziato, inoltre, deve possedere il più alto grado di onestà intellettuale ed essere pronto a riconoscere i propri errori e ad accettare le opinioni degli avversari purché scientificamente fondate.
Questo modo d’intendere la scienza e lo scienziato rappresenta un’idealità, un dover essere, un limite verso cui tendere. Da ciò discende che non sempre gli scienziati hanno agito in conformità a tale modello intellettuale e morale. Infatti, nella storia della scienza non mancano esempi di dogmatismo, di intolleranza e di ambizioni personali, ma ciò non altera la validità del modello così come una dottrina morale o religiosa conserva tutto il suo senso anche se alcuni suoi adepti agiscono in modo da violarne i precetti fondamentali. Ciò spiega, in particolare, quella specie di venerazione per la scienza che si è manifestata nella cultura occidentale dal diciannovesimo secolo alla prima metà del secolo scorso. Tale venerazione, che ha anche portato a forme radicali di scientismo, è stata, come abbiamo già visto, uno dei principali atteggiamenti del positivismo nella lotta contro gli irrazionalismi che turbano la vita sociale.
In conclusione, la scienza è apparsa modernamente come una delle più nobili imprese dell’uomo, e pertanto completamente libera di perseguire la sua verità. Essa, perciò, appare dotata di una specie di non-responsabilità rispetto a ciò che altri avrebbero potuto fare con le sue conquiste, scoperte e risultati.
È in questo ambito che nasce il mito della neutralità della scienza. La scienza è cosa buona in sé. Essa, perciò, ha lo scopo di perseguire la verità indipendentemente da qualsiasi altra cosa. Nessuno, neanche lo Stato o la Chiesa, può porre limite al suo sviluppo.
Questa immagine della scienza, che sul piano filosofico trova compiuta espressione nel positivismo, subisce un radicale cambiamento verso la metà del secolo scorso. La causa più rilevante è data dall’esplosione della prima bomba atomica sulle città giapponesi di Hiroshima e Nagasaki, che propone alla coscienza morale dello scienziato il problema del suo coinvolgimento nelle applicazioni delle scoperte scientifiche. Sono numerosi e ben noti i casi di scienziati caduti in una profonda crisi morale a causa di questo evento. Eppure, la costruzione della bomba atomica come arma distruttiva non dovrebbe apparire come una novità. Infatti, le scoperte scientifiche hanno sempre trovato nella storia dell’umanità applicazioni anche in ambito militare e nella produzione di armi sempre più potenti. Tuttavia, ciò che consente di valutare questo evento in un modo completamente diverso dal passato è l’idea di autodistruzione dell’umanità ad opera di certe applicazioni delle scoperte scientifiche: lo scienziato intuisce, per la prima volta, che egli può essere corresponsabile della distruzione del genere umano. La ricerca della verità scientifica pura e semplice lo aveva reso responsabile solo del modo in cui raggiungere le scoperte, ma non dell’uso che altri avrebbero potuto farne. Ora allo scienziato non basta più controllare ciò che avviene all’interno della scienza. Egli avverte il richiamo della coscienza morale che lo porta a vedere anche ciò che accade all’esterno della scienza ad opera di altri. La verità scientifica non gli basta più, così egli va alla ricerca di una verità più ampia… una verità che includa anche quella scientifica e la orienti verso un fine dell’umanità. Questo processo di revisione riguarda non solo la scienza pura ma anche quella applicata. L’idea che la scienza applicata sia nient’altro che l’utilizzazione della conoscenza scientifica per il beneficio dell’umanità presenta alcuni punti deboli, non solo a causa dell’esistenza di cattive applicazioni, ma anche perché le stesse utili applicazioni possono condurre a conseguenze pericolose e a danni futuri non controllabili (si pensi ai disastri nucleari di Chernobyl e Fukushima).
La contaminazione dell’ambiente e il rischio di compromettere il futuro dell’umanità in seguito a un esperimento sbagliato sono solo alcuni importanti argomenti che vengono dibattuti frequentemente, con la conseguenza che la scienza cessa di essere considerata come qualcosa di buono in sé e che, come tutte le altre attività umane, mostra le proprie ambivalenze e pericoli.
Vengono così a emergere due orientamenti scientifici diversi e contrapposti. Infatti, mente alcuni studiosi sostengono che l’attività scientifica rappresenta una ricerca rigorosa e neutrale della verità, la quale non è influenzabile da fattori esterni alla scienza, come quelli di natura politica, sociale o religiosa, altri invece affermano che la scienza è sempre espressione del potere (politico, economico, etico-religioso) e che è illusorio credere che essa possa produrre esclusivamente un sapere attendibile e imparziale. A mio avviso, entrambe queste concezioni sono unilaterali e colgono perciò solo parzialmente ciò che è la scienza. È pertanto un errore far assurgere ognuna di esse a punto di vista generale, in quanto la validità dell’una escluderebbe la validità dell’altra. Emerge, di conseguenza, una visione unitaria in base alla quale la scienza risulta caratterizzata da entrambi i suddetti punti di vista.
Nell’ambito di questa prospettiva unitaria della scienza, si pone il problema della responsabilità. La responsabilità della scienza è perciò una presa di coscienza dello scienziato che la propria ricerca della verità è anche una forma di partecipazione al divenire globale della realtà. In questo senso, essa si manifesta principalmente come sradicamento di vecchi criteri di valutazione e nascita di nuovi valori.
Il riferimento ai valori chiama in causa direttamente la riflessione etica, affinché si abbia un’etica capace di orientare le scelte della ricerca scientifica e regolarne le capacità operative. Da ciò segue che la scienza non può svilupparsi compiutamente senza porsi dei valori di riferimento compatibili con altri valori che esistono in un dato sistema sociale e con i quali essa coesiste. I valori della scienza dovranno integrarsi con gli altri valori che si danno in una determinata società. Una teoria etica della scienza deve perciò partire dalla totalità dei valori e, all’interno di essa, isolare e correlare quelli tipicamente scientifici.
In conclusione, la scienza non è cosa buona in sé (come sostengono i positivisti), ma lo diventa solo in funzione dell’uomo, della sua sopravvivenza e del suo miglioramento globale, ossia economico, politico, sociale, culturale, estetico, etico, spirituale.
Qual è il punto di vista che la Massoneria assume nei confronti della scienza? Per il pensiero massonico, la scienza è cosa buona in sé oppure è cosa buona solo nella misura in cui contribuisce al miglioramento globale dell’uomo? L’indagine svolta nelle Lezioni precedenti ci consente di affermare che la Massoneria, pur essendo una società iniziatica, sente il profondo dovere di porsi di fronte ai problemi della contemporaneità non solo per comprenderli ma anche per tentare di risolverli. E nel fare ciò essa si ispira alla sua antropologia filosofica, ossia alla sua immagine dell’uomo. Ed è proprio l’antropologia massonica che viene confrontata con le due concezioni di scienza sopra delineate. Da una prima e superficiale analisi sembra che la Massoneria si trovi a condividere la nozione di scienza intesa come cosa buona in sé. Infatti, sia lo scienziato sia il massone hanno in comune la libertà, la tolleranza, la fratellanza, l’universalità, la ricerca della verità (mai rivelata e assoluta). Ma le analogie finiscono qui. Poiché libertà, tolleranza e fratellanza sono nozioni che si collocano tutte nell’immanenza, ed una differenza fondamentale tra scienziato positivista e massone consiste proprio nel modo d’intendere l’immanenza. Mentre per il primo tutto ciò che ha senso è riducibile, direttamente o indirettamente, all’immanenza, per il secondo il senso da conferire alla realtà ha un ambito più ampio e discende da un principio regolativo in base al quale la trascendenza regola l’immanenza, mentre l’immanenza tende verso la trascendenza, in un processo continuo e infinito.
L’assunzione della trascendenza regolativa da parte del pensiero massonico segna la linea di demarcazione tra Massoneria e “scienza” intesa positivisticamente. Conseguenza di ciò è che la Massoneria si trova a condividere e a difendere la nozione di scienza che è cosa buona solo se tende al miglioramento globale dell’uomo, ossia fisico, biologico, economico, sociale, politico, estetico, etico, spirituale.
Per il massone, i valori della scienza sono valori relativi da porre accanto a tutti gli altri valori che si danno in una data società, partendo da un punto di vista unitario che viene fornito dall’antropologia massonica. Il fine supremo di tale antropologia è la realizzazione etica dell’uomo.
1 commento
Caro Prof. Di Bernardo, bellissima lezione. Questi sono i temi e il livello dei dibattiti che dovrebbero appassionare i massoni, anche se mi rendo conto, non sia semplice portarli nelle singole Logge. La prima osservazione che mi viene è quindi che bisognerebbe pensare a come farlo, ovvero darsi un metodo che lo consenta. La seconda osservazione è invece nel merito del suo discorso. Forse ho capito male i concetti da Lei espressi e nel caso mi scuso se vado fuori strada, ma io la distinzione la farei tra cosa è condivisibile e può essere verificato secondo il metodo scientifico e cosa non lo è. Una volta operata questa partizione direi che si potrebbe discutere sulle conquiste e/o conoscenze non condivisibili, ma senza conferire loro la funzione di essere solide fondamenta su cui costruire ipotesi e discorsi. In Massoneria il ruolo di “solide fondamenta” è del Grado di Apprendista. Quello è l’ambito dell’applicazione del metodo scientifico e della trattazione delle esperienze condivisibili. Il grado di Compagno è l’ambito della sperimentazione nella zona di confine tra la scienza e le ipotesi di progresso, ma senza perdere di vista le basi. Il grado di Maestro è la solitudine di conquiste che nessuno può certificare se al momento siano reali o illusorie e, magari un giorno, condivisibili.