di Giuliano Di Bernardo
Da qualche tempo dedico parte delle mie serate ad analizzare (credo sia questo il termine più giusto) quanto viene riportato sul Canale informativo Telegram del “Cavaliere Nero” circa le vicende interne del Grande Oriente d’Italia. E sovente ho anche avuto il piacere di partecipare, con brevi interventi, alle varie discussioni. Di questo ringrazio i suoi gestori, ed in generale del prezioso veicolo di notizie che da quasi un anno essi rappresentano.
Nel pomeriggio di oggi sono rimasto colpito da un intervento, di un utente, che ha focalizzato l’intera vicenda della massoneria italiana in un piatto: i “fegatini alla veneziana”. Facendo di questa pietanza povera un Segno. Quello che in semiotica, e cioè per la filosofia del linguaggio, è della più importante rilevanza come “fenomeno di significazione”.
Perché dico questo? Perché quello stesso utente riporta la genesi del simbolo testé indicato ad un film molto famoso, del regista Mario Monicelli, vincitore nel 1959 del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia, ex aequo con un altro film molto bello, stavolta di Roberto Rossellini (sceneggiato da Indro Montanelli), sul quale tornerò alla fine.
Dicevo del film di Monicelli, considerato uno dei capolavori della storia del Cinema: “La grande guerra“. Qua i protagonisti sono Oreste Jacovacci (Alberto Sordi), romano, e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), milanese. Due perfetti anti-eroi, scansafatiche, furbastri e persino vigliacchetti, che dopo aver cercato invano di imboscarsi si trovano arruolati sul fronte della “grande guerra”.
Da quel momento i due vivono tutte le disgrazie di una condizione precaria: il cibo pessimo, le marce forzate, il freddo, la paura di morire, ma anche qualche piccola distrazione militare. In una cosa, però, i due commilitoni sono sempre in prima fila: nell’evitare le grane, piccole o grandi che siano, riuscendo a farla franca quasi sempre. Fino al proverbiale appuntamento col destino.
Una notte, infatti, i due si trovano per caso in una cascina che viene occupata dai nemici. Cercano di scappare travestendosi da austriaci ma vengono catturati, e proprio in virtù del loro travestimento rischiano di essere fucilati. Fattostà che il colonnello nemico gli promette di salvargli la vita se riveleranno l’ubicazione di un certo ponte di barche sul Piave, dove l’esercito italiano, in rotta dopo la disfatta di Caporetto, stava riorganizzandosi per un’epica e strenua resistenza.
I due conoscono l’informazione militare delicatissima e decidono, per evitare la fucilazione, di rivelarla. Ma il colonnello austriaco, proprio nel momento cruciale, pronuncia la famosissima frase sbagliata, provocando nei due un incredibile rigurgito d’orgoglio.
È Gassman il primo a reagire, con la famosa battuta al colonnello: “… Visto che parli così, mì a tì te disi propri un bel nient, faccia di merda!“. Così, portato di fronte al plotone d’esecuzione, è anche il primo a morire da eroe. La stessa sorte tocca subito dopo ad Alberto Sordi, che seppure meno coraggioso del compagno, decide di non tradire la memoria di quest’ultimo e se stesso, andando incontro con molto pathos alle pallottole nemiche.
Ma cosa aveva scatenato questo rigurgito di dignità nei due fedifraghi? Appunto una battuta di disprezzo, rivolta dal colonnello al suo attendente, a proposito dello scarso coraggio ed amor patriottico degli italiani: “Fegato dicono? Questi conoscono solo quello alla veneziana con le cipolle! E presto mangeremo anche noi quello…”, alludendo alla prossima conquista dell’Italia settentrionale, che di lì a poco avrebbe atteso (nell’immaginario del colonnello) l’esercito austriaco.
“Fegatini alla veneziana”: un semplice piatto diventa così l’emblema di qualcos’altro. Aliquid stat pro aliquo, appunto: un riscatto morale capace di dare significato ad un’esistenza intera.
I “fegatini alla veneziana” e la “questione morale” della Massoneria italiana
Un bell’articolo apparso stamattina sulla piattaforma on-line Giornalia chiarisce bene come i “giochi” nel Grande Oriente d’Italia siano, infine, arrivati ad un punto di svolta.
Ho chiesto al Direttore editoriale della testata giornalistica di poter riportare integralmente il loro articolo sul mio Blog, e con il suo consenso lo troverete in calce a questa mia breve premessa. Mentre la foto che precede è pubblicata su licenza del “Cavaliere Nero”; mi sembrava piuttosto esaustiva di una certa attuale situazione tra Leo Taroni e Stefano Bisi e l’ho voluta utilizzare… perché ritengo molto importante conservare, nella vita, anche un salutare senso dell’ironia!
Giornalia enfatizza il ruolo avuto da Leo Taroni e Silverio Magno nella proposizione dello scottante argomento “massomafia” all’attenzione dei 23mila affiliati al Grande Oriente d’Italia. Entrambi, infatti, attraverso il programma elettorale della Lista “NOI INSIEME” hanno compiuto, sotto questo profilo, un’indiscutibile rivoluzione copernicana. Purtroppo per loro si apprestano a pagarne care le conseguenze.
In seguito all’ultima Balaustra del Gran Maestro, infatti, saranno entrambi denunciati come colpevoli di grave condotta anti-massonica nel corso della prossima riunione del Consiglio dell’Ordine, che si terrà a Bologna l’11 novembre venturo.
In questa occasione il Gran Maestro porgerà, metaforicamente, il piatto di “fegatini alla veneziana” ai due imputati. Solo due le scelte: chiedere ufficialmente scusa, fare pubblica ammenda e ritirarsi in buon ordine dalla campagna elettorale, rinunciando per sempre alle rivendicazioni portate sul tema dell’anti-mafia in seno al G.O.I., oppure andare fino in fondo e rifiutare la pietanza incriminata.
Il tal caso la fucilazione (per fortuna!) sarà solo simbolica, traducendosi in una espulsione dall’Ordine comminata da qualche Tribunale massonico al servizio compiacente dell’esecutivo. Resterà per loro la libera possibilità di trovar poi giustizia presso il più serio Giudice statale.
Nel primo caso i due valorosi eroi di Giornalia saranno ben presto scordati dalla Storia e dai Fratelli, nel secondo caso… be’, forse ne vedremo delle belle, ed io potrò ricredermi circa la possibilità che i miracoli, sebbene molto molto raramente, accadano.
Vada come vada Leo Taroni e Silverio Magno avranno fatto la mia stessa esperienza, quella che mi accompagna da trent’anni e ha sperimentato chiunque, nel G.O.I., abbia mai inteso intraprendere un ragionamento serio sulla massomafia e sul malaffare: l’odio, il disprezzo, il tentativo della damnatio memoriae.
Mi domando se in questo momento i ritratti di Taroni e Magno – come fu per quelli di Di Bernardo – siano anch’essi appesi a testa in giù, quale monito e simbolo, in ogni Casa massonica dello Stivale.
Con questo interrogativo, e prima di lasciarvi alla lettura dell’articolo concessomi da Giornalia, devo però ritornare per un attimo, come promesso, all’altro film vincitore ex aequo del Leone d’oro al Festival del Cinema di Venezia nel lontano 1959, e cioè “Il Generale Della Rovere” di Roberto Rossellini.
Di quest’altro film, infatti, mi piace ricordare una frase, che compare nella Lettera che il Generale Della Rovere scrive infine alla moglie, riprendendo anch’egli coscienza, come i due commilitoni de “La grande guerra“, dell’importanza dei valori della dignità, del coraggio e del patriottismo.
Questa frase recita così: “Quando non sai qual è la via del dovere, scegli la più difficile“.
Spero vivamente che Leo Taroni e Silverio Magno, in questo momento così delicato per la Massoneria italiana, scelgano la via più difficile. Scopriranno di avere al loro fianco tantissimi massoni per bene.
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Silverio Magno con Leo Taroni e la “pastorale” antimafia nel Grande Oriente d’Italia: perché “affrontare” è più difficile che negare
Redazionale
“Un giorno la paura bussò alla porta. Il coraggio andò ad aprire e non trovò nessuno“, questa frase, pronunciata dell’attivista americano per i diritti civili Martin Luther King, si adatta perfettamente al sessantenne notaio messinese Silverio Magno (in copertina), eminente esponente del Grande Oriente d’Italia e in questi giorni al centro di un eroico tentativo di rilancio morale della più importante e numerosa comunità massonica nazionale.
Le ragioni stanno in una Lettera, semplice e allo stesso tempo dirompente, che Magno ha voluto inviare lo scorso 22 ottobre ai quasi 23mila “fratelli” di Palazzo Giustiniani. In essa la sua candidatura alla carica di Grande Oratore nella Lista “NOI INSIEME” dell’ex Sovrano Gran Commendatore del R.S.A.A. Leo Taroni e un forte richiamo ai valori dell’Antimafia (quella con la “A” maiuscola), dei martiri civili Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Magno, nella sua Lettera, parla senza infingimenti e ipocrisie dello stato attuale del Grande Oriente d’Italia, corroso da «un sempre maggiore svilimento delle nostre peculiari caratteristiche Tradizionali a vantaggio di comportamenti di natura prettamente profana», in cui è «disattesa e vilipesa la Ritualità, che è il centro del nostro vivere insieme» e «trattato con sufficienza e malcelata sopportazione lo studio del Simbolismo», ma – soprattutto – dove sono «ignorati i principi sacri di Libertà, di agire e di pensare, di Eguaglianza, di Fratellanza e di Tolleranza».
Parole molto chiare, capaci addirittura di andare oltre, affrontando il tema “innominabile” dell’infiltrazione malavitosa nella massoneria regolare. Un tabù che è interdizione sacrale anche per molti magistrati, che sanno – aggirandolo – di preservarsi da fastidi tali da mettere in pericolo se stessi e le loro carriere.
Non così per Silverio Magno, che esprime con una nitidezza impressionante un concetto che dovrebbe appartenere alla sensibilità, alla coscienza e alla morale di ogni massone italiano: «l’affrancamento da qualsiasi possibile accostamento alla criminalità organizzata … non permettendo più che si parli di massomafia o di massoneria deviata, perché la Massoneria è Sacra e non è accostabile a queste nefandezze».
In effetti non sarebbe nemmeno difficile riuscirvi. Perché, seppure totalmente rinnegati dalla attuale Giunta del G.O.I., gli strumenti regolamentari per rendere possibile tutto questo esistono! Prendiamo un caso eclatante: quello di Vito Lauria, Maestro Venerabile della Loggia “Arnaldo da Brescia” di Licata (comune siciliano in provincia di Agrigento), recentemente condannato in via definitiva ad 8 anni di carcere, per concorso esterno in associazione mafiosa, dalla Corte di Cassazione.
Il “venerabile fratello” in questione avrebbe dovuto essere espulso dal Grande Oriente d’Italia, come dichiarato dallo stesso Gran Maestro Stefano Bisi nel corso di un’intervista rilasciata al giornalista Pino Nano il 26 gennaio 2023, in riferimento al caso di un altro “fratello” coinvolto in una operazione antimafia: il campobellese Alfonso Tumbarello (medico di Matteo Messina Denaro). Ma perché questo non è avvenuto?
La spiegazione è molto semplice: perché nel G.O.I. non esiste un potere di espulsione diretta in capo al Gran Maestro. L’unico modo per espellere un “fratello” è quello di processarlo per “colpa massonica” ai sensi dell’art. 15 della Costituzione dell’Ordine, che individua i casi in cui un affiliato si rende colpevole di trasgressione verso gli ideali massonici, tanto nel suo contegno interno alla Comunione quanto all’esterno nella società civile.
Più precisamente l’art. 187 del Regolamento dell’Ordine dispone, al suo 2° comma, che in caso di arresto di un affiliato a seguito di Ordinanza emessa dall'”Autorità profana” (cioè dalla Magistratura statale): «Il Grande Oratore formula una Tavola d’Accusa». Tale Tavola d’Accusa costituisce il mezzo attraverso il quale una condotta dall’accentuato disvalore profano viene ricondotta all’interno dell’Ordinamento giuridico massonico, affinché possa essere successivamente valutata in sede giudiziaria interna (cioè dal Tribunale della Corte Centrale o dai Tribunali Circoscrizionali) e sanzionata – eventualmente – con un Decreto di espulsione emesso direttamente dal Tribunale giudicante.
Il problema nasce proprio in questo: ammettere la colpa massonica per reati connessi a ‘ndrangheta, mafia e camorra farebbe crollare la tesi negazionista per la quale si è spesa fino al midollo l’attuale Gran Maestranza del G.O.I., che anche di fronte ai casi più eclatanti ha scelto deliberatamente di fermarsi agli atti di decretazione, senza mai trovare il coraggio per intraprendere le vie giuridiche interne in grado di condurre ad una reale espulsione dei “fratelli” coinvolti in fatti di malaffare. Nemmeno a seguito di condanna definitiva! Preferendo invece ricorrere a veri e propri sotterfugi giuridici, attraverso – ad esempio – l’emanazione di Decreti Magistrali di depennamento degli affiliati coinvolti, che però risultano impossibili a termini regolamentari, dato che il “depennamento” configura una sanzione esclusivamente amministrativa che non solo non è nella disponibilità del Gran Maestro, bensì del Consiglio di Disciplina delle singole Logge, ma è pure destinata ai soli casi di morosità o assenza dai Lavori rituali.
Nel caso specifico, il “venerabile fratello” Vito Lauria si è visto destinatario di un fantomatico Decreto Magistrale di depennamento numerato 431/SB del 20/04/2023[…] Decreto che nonostante la specifica richiesta del giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Mario Portanova non è stato mai divulgato. Perché?
Queste le contraddizioni sulle quali si sono abbattute, come un uragano, la trasparenti affermazioni di Silverio Magno e del candidato alla Gran Maestranza Leo Taroni, il quale nel suo programma elettorale è andato anche più a fondo, parlando della necessità assoluta, per il Grande Oriente d’Italia, di sconfiggere quella “mentalità mafiosa“, magari del tutto scollegata da reali contiguità con il malaffare, che sta però alla base di ingiustificati comportamenti elusivi del regolamento interno: «Il Fr. Leo Taroni e i Fratelli candidati alla carica di Grande Dignitario, si impegnano a lavorare incessantemente, compiendo ogni necessario sacrificio, affinché il Grande Oriente d’Italia operi, all’interno e nel mondo profano, in modo assolutamente conforme a quanto stabilito dalla Costituzione repubblicana e dalla Legge, nonché in modo rispettoso della sovranità dello Stato e dell’azione della Magistratura e, infine, affinché ponga in essere pensieri, parole e azioni di siderale distanza e di avversione totale, effettiva ed efficace alla criminalità organizzata, specialmente se di natura mafiosa, e anche alla cosidetta “mentalità mafiosa”, che costituisce un morbo velenoso e mortifero che non deve trovare dimora nel Tempio della Fratellanza».
La rappresaglia interna
Avremmo voluto fermarci, ancora una volta, alla cronaca, purtroppo occorre dar conto di come l’impegno schietto e il coraggio cristallino dimostrati dai candidati Silverio Magno e Leo Taroni sul fronte dell’Antimafia siano in queste ore sotto attacco dalla parte più retriva del Grande Oriente d’Italia, quella che non accetta, per miope dogmatismo, la “pastorale” portata avanti dalla Lista “NOI INSIEME“.
Il “Partito del negazionismo” si fa forte della BALAUSTRA N. 8/SB – 2 Novembre 2023, E. V. emanata l’altro ieri dal Gran Maestro Stefano Bisi, nella quale si spendono parole durissime nei confronti dei due “fratelli” candidati, ai quali si rimprovera di aver rilasciato «alcune improvvide dichiarazioni diffuse in questi giorni all’interno e all’esterno della Comunione», che avrebbero causato «sconcerto e sdegno».
Magno e Taroni sono accusati da Bisi di essere mossi da strumentale e frenetica ambizione, «che offende tutti noi», oltre che “sé stessi” (e qua ci occorre segnalare al Gran Maestro, collega giornalista, che il pronome “sé” si accenta solo quando è isolato, per distinguerlo da “se” congiunzione). Tutto ciò perché «La Libertà non è fare ciò che si vuole», soprattutto in quanto «La Comunione, in questo momento, non ha bisogno di finti redentori o pseudo crociati che sventolano il vessillo di apparenti ed ingannevoli libertà: libero non è colui che può ciò che vuole, ma colui che vuole ciò che deve».
Insomma, farà piacere ai quasi 23mila massoni del Grande Oriente d’Italia apprendere che sul concetto di “libertà” il loro Gran Maestro la pensa esattamente come un altro riconosciuto Alfiere del “libero pensiero“: «Il concetto di libertà non è assoluto perché nulla nella vita vi è di assoluto. La libertà non è un diritto: è un dovere. Non è una elargizione: è una conquista; non è un’uguaglianza; è un privilegio!» (Benito Mussolini).
Ed è proprio la libertà così intesa, caro Stefano Bisi, cioè la libertà vilipesa e tenuta al servizio scodinzolante del potere, che costituisce: «merce di scambio per un pugno di voti», non il contrario!
E come li vorremmo vedere i massoni giustinianei “in piedi e all’ordine” ad ascoltare la BALAUSTRA bisiana silenti nel Tempio della Parola, a configurare plasticamente la negazione di loro stessi e delle idealità professate dalla Massoneria universale! (C’è da domandarsi se anche la U.G.L.E. – la Gran Loggia Madre inglese che ha recentemente di nuovo riconosciuto il G.O.I. come “Obbedienza regolare“– potrà continuare a far finta di non vedere e di non sentire per mero interesse metallico).
Bologna, 11 novembre 2023
Secondo l’ormai riconosciuto Canale di informazione massonica de “Il Cavaliere Nero” è già pronta, per i due “fratelli ribelli”, la ricompensa… L'”imboscata” si terrà a Bologna, sabato 11 novembre, all’interno del Consiglio dell’Ordine.
Il suo Presidente, Stefano Bisi, sosterrà che Leo Taroni e Silverio Magno lo hanno offeso, lui e l’Ordine, affermando – ovviamente a torto – che il G.O.I. sarebbe invaso da mafiosi (niente di più falso!). Poi prenderanno la parola altri “Consiglieri”, i cui nomi sono già stati fatti, che proporranno l’elevazione di una Tavola d’Accusa ai due malcapitati, ad opera dell’Oratore del Consiglio dell’Ordine, così da lasciare pulite (in senso figurato e almeno per questa volta) le mani del Grande Oratore sardo Michele Pietrangeli.
A quel punto sarà tutto nelle mani di Leo Taroni e Silverio Magno. Ai quali qualche amico consiglia già di tenersi pronti a convocare una Conferenza stampa, magari insieme a Mario Martelli, Tonino Salsone e Claudio Bonvecchio, al fine di chiarire, una volta per tutte, come stanno realmente le cose.
Qualcuno, ieri, su “Il Cavaliere Nero” ha scritto che la Storia a volte pone dei punti di cesura: L’unica scelta possibile allora è o di qua o di là, perché nel mezzo c’è solo l’abisso.