IL CAMMINO TRA IL DIVINO E L’UMANO
di Giuliano Di Bernardo
La religione rappresenta, in tutte le culture umane e in tutti i tempi, l’espressione più alta e universale della capacità creativa dell’uomo.
La sua universalità discende dal fatto che, nella linea evolutiva di Homo, tutti i gruppi umani finora conosciuti hanno avuto una credenza nell’esistenza di un mondo, parallelo e distinto da quello sensibile, e hanno praticato riti e recitato preghiere destinati non solo a placare ma anche ad accattivarsi la benevolenza delle entità spirituali e invisibili che popolano quel mondo, per indurli a rivolgere il loro sguardo misericordioso sugli esseri umani afflitti da continue sofferenze.
La capacità di concepire la religione è una prerogativa esclusiva degli esseri umani. Infatti, non esiste la pur minima testimonianza che altre specie viventi sulla Terra abbiano qualcosa che possa lontanamente assomigliare alla religione. Questo non si deve soltanto al fatto che le altre specie non abbiano il linguaggio. Il linguaggio non è necessario per far nascere la religione. Lo diventa quando si vogliono definire formalmente le credenze religiose, specificando la natura della divinità in cui si crede e le caratteristiche del mondo ultraterreno verso cui si anela.
Sapendo che siamo il prodotto dell’evoluzione, dovremmo chiederci quali pressioni selettive abbiano favorito la nascita dell’impulso religioso. Se la religione esiste ed è universale, qual è allora il vantaggio evolutivo che da essa deriva? Il comportamento religioso a che serve? Perché uomini e donne, in tutte le età, s’inginocchiano, si flagellano, uccidono e si lasciano uccidere nel nome di dio?
La risposta a queste domande non è semplice. Tuttavia, usando il metodo della narrazione storica, possiamo formulare qualche ipotesi esplicativa.
La prima domanda fondamentale che ci possiamo porre è la seguente: “quando, nella storia dell’uomo, la religione ha fatto la sua prima apparizione?”. Per tentare una risposta, possiamo usare l’analisi comparativa tra i livelli d’intenzionalità, da una parte, e le dimensioni del cervello nei reperti fossili, dall’altra. Quale ordine d’intenzionalità deve possedere una credenza religiosa per potersi manifestare?
Nelle sue forme più elementari, la religione richiede l’esistenza di un mondo diverso da quello in cui viviamo e che percepiamo con i sensi. Affinché ciò sia possibile, è necessaria almeno un’intenzionalità del secondo ordine. Come ha messo in evidenza Dunbar, nel volume La scimmia pensante, per partecipare ad attività religiose, io devo credere che esista una dimensione parallela, popolata da esseri dotati di intenzioni che possono essere modificate dalle mie preghiere. Io, in altre parole, credo [1] che ci siano delle divinità, che intendono [2] determinare il mio futuro. Se non sono in grado di influire in alcun modo sulle intenzioni di questi esseri, la religione non ha nessun ruolo da assumere; entità di questo tipo sono ben poco diverse dalle piene furenti o dai vulcani eruttanti che ci inghiottono senza preavviso. Una religione, se vuole avere un valore reale, deve poter influire sul futuro che ci è destinato. Ma un’intenzionalità di secondo ordine non è veramente sufficiente a sostenere la fede in una realtà metafisica. Se la religione deve avere una qualche utilità pratica, allora le divinità devono essere in grado di capire quello che io voglio. Pare quindi che la religione debba comportare un’intenzionalità di terzo ordine: io credo [1] che ci siano divinità che posso persuadere a capire [2] quello che realmente desidero [3] e che, avendolo fatto, interverranno in mio aiuto. Questo mi pare sufficiente per spiegare l’evoluzione di un sentimento religioso. Non è però ancora sufficiente per spiegare il carattere comunitario della religione, il fenomeno a più larga scala dei rituali e di tutte le forme di pubblica devozione, che sono così importanti nelle religioni che pratichiamo. La religione nella sua forma umana non è nulla se non è un’attività sociale: ci ritroviamo uniti in riti e credenze comuni e condivisi per formare una comunità. Per giungere a questo, c’è bisogno almeno di un quarto (e forse un quinto) ordine d’intenzionalità: io suppongo [1] che tu pensi [2] che io creda [3] che ci sono delle divinità che intendono [4] intervenire per modificare il nostro futuro perché comprendono i nostri desideri [5]. Se, e fino a quando, non riusciremo a ritrovarci insieme in questo modo, non abbiamo religione ma solo delle credenze personali. Sono le credenze condivise che fanno della religione quella che è.
È chiaro che tutto ciò presuppone l’esistenza di un linguaggio ben articolato: senza il linguaggio, la coscienza non può elevarsi fino al quinto ordine dell’intenzionalità, come pure non può formare gruppi sociali altamente organizzati.
Conseguenza di quanto appena detto è che solo gli esseri umani, a differenza di tutte le altre specie animali, potendo aspirare a un’intenzionalità di quarto ordine, possono avere la religione. Ciò spiega anche perché, all’interno delle religioni, pochi uomini, capaci di elevarsi fino al quinto o al sesto ordine, ne siano i fondatori, come Mosè, Gesù o Maometto.
A questo punto, possiamo usare l’intenzionalità come criterio per stabilire quando la religione ha fatto la sua prima apparizione nella storia evolutiva degli ominidi. Se la religione richiede, come abbiamo visto, il quarto ordine per essere compresa, allora possiamo affermare che la sua apparizione è contemporanea a quella del linguaggio, avvenuta 500 mila anni fa. Questo si accorda con la natura comunitaria della religione, la quale, per esprimersi, ha bisogno del linguaggio. L’intenzionalità del quinto ordine, essendo associata a Homo sapiens, si manifesta molto tempo dopo, circa 200 mila anni fa. In questo periodo, l’intenzionalità del quinto ordine e un linguaggio ben strutturato nella grammatica e nella sintassi possono cooperare per esprimere la religione non solo come organizzazione eminentemente sociale, ma anche come concezione metafisica del trascendente.
Il vantaggio evolutivo della religione sta nella sua capacità di favorire la coesione tra gli uomini e di esercitare il controllo sociale. Nel fare ciò, essa si avvale di potenti strumenti come l’immortalità, la metafisica e il misticismo.
Ritorniamo a quello stadio evolutivo degli esseri umani (circa 200 mila anni fa) in cui, grazie alla crescita del cervello, si acquisisce l’intenzionalità del quinto ordine. Con tale capacità essi diventano coscienti della propria coscienza, e cominciano a guardarsi intorno volgendo lo sguardo sia all’ambiente naturale in cui vivono sia agli altri esseri umani con i quali sono in rapporto. Ciò che vedono è deludente. La natura è ostile e inospitale: terremoti, eruzioni vulcaniche e cambiamenti repentini del clima li tengono in uno stato continuo di allerta e di difesa. Gli animali feroci costituiscono un perenne pericolo quotidiano contro il quale nulla o poco si può fare. Gli altri gruppi umani, che vivono nelle stesse condizioni, il più delle volte, si presentano come nemici e distruttori. Vivere sul nostro pianeta, in quel tempo lontano, era non solo una lotta quotidiana per la sopravvivenza, ma anche e soprattutto un rassegnarsi a subire tutte le avversità della vita. L’uomo viveva in una condizione d’impotenza e ne era cosciente.
La teoria darwiniana dell’evoluzione tende a favorire tutto ciò che possa aiutare le specie a sopravvivere. Lo ha fatto con gli esseri umani favorendo una crescita rapidissima del loro cervello e fornendogli così anche la capacità di escogitare nuove possibilità per sopravvivere in un ambiente naturale e umano ostile.
L’ordine d’intenzionalità è già tale per cui è possibile creare le arti (ciò che è bello) e la morale (ciò che è buono), ma i sapiens aspetteranno molto tempo prima di farlo. Da ciò segue che l’arte e la morale non erano funzionali alla sopravvivenza. La religione, invece, pur richiedendo un ordine di intenzionalità superiore (il quarto per credervi, il quinto per crearlo), fa la sua comparsa nella storia evolutiva dell’uomo molto tempo prima e si diffonde con una rapidità tale da diventare universale.
Riproponiamo la domanda: “come si spiega il fatto, che non ha alcun riscontro nel regno animale, che la religione abbia una presa così forte sulla nostra specie?”. Perché noi umani, che abbiamo sviluppato al massimo grado le capacità razionali con la logica e la matematica, ancora oggi finiamo per cedere alle richieste di condivisione di un mondo spirituale, completamente inventato da uomini di grande carisma e comunicabilità, fino al punto da consacrare o addirittura sacrificare ad esso la nostra vita? La risposta non può che essere una: la religione è l’unica possibilità che abbiamo di uscire da una vita quotidiana fatta di stenti, di pericoli e di sopraffazioni. È probabile, quindi, che l’evoluzione della religione si debba al fatto che essa è un meccanismo utile per tenere uniti i gruppi sociali e garantire che i loro membri lavorino insieme per il bene comune.
La religione, infatti, sviluppa il senso di appartenenza al gruppo sociale: i membri che appartengono a un gruppo religioso organizzato fanno anche parte di un gruppo sociale più ampio e usano i vincoli religiosi per rafforzarlo. Ma in base a che cosa si crea il senso di appartenenza? La risposta è semplice: mediante la condivisione di un mondo ultraterreno popolato da spiriti che ci dispensano sostegno e privilegi, e dove noi andremo dopo la morte del corpo. Ecco l’idea vincente per uscire da una vita terrena che è fonte di angoscia e di pericolo. La credenza in un mondo parallelo a quello quotidiano non risolve la sofferenza dell’uomo, ma lo aiuta ad affrontarla meglio, sapendo che alle sofferenze in questa vita corrisponderanno le beatitudini nell’altra.
L’esistenza di un mondo oltre la vita possiede e trasmette una forza enorme. Chi aveva la capacità di padroneggiare queste esperienze, di poterle produrre a comando e di portare gli altri a provarle, si ritrovava investito di un carisma e di un potere straordinari. Dallo sciamano delle religioni primitive ai creatori delle grandi religioni profetiche e monoteiste (Mosè, Gesù, Maometto), gli esseri umani si sono mostrati disponibili a seguire ciecamente i pifferai magici.
Lo sciamano è colui che è dotato di poteri magici, che può controllare sia il mondo terreno sia quello ultraterreno, che può fare miracoli a favore di quei poveri esseri umani per i quali può favorire il passaggio verso l’aldilà una volta che essi siano morti. Le condizioni ci sono tutte: è sufficiente fare un altro passo per giungere alle gerarchie ecclesiastiche e al complesso apparato di potere dell’autorità religiosa.
Tutte le religioni, oltre a dare l’illusione di sopravvivere alla morte del corpo, hanno sempre svolto un potente ruolo coercitivo sui loro adepti, per rafforzare la loro sottomissione alla credenza della divinità da loro imposta. Comincia così a delinearsi l’altro aspetto fondamentale della religione, che è strettamente connesso al senso di appartenenza e alla coesione dei gruppi umani: il controllo sociale. La condivisione di una credenza religiosa opera come fattore di coesione del gruppo, ma tale coesione, una volta creata, ha bisogno di essere mantenuta nel tempo. Ciò è possibile solo a condizione che i membri del gruppo continuino ad agire in conformità alla credenza in quella divinità. Se, viceversa, all’interno del gruppo cominciano a esistere credenze diverse, allora l’intero gruppo religioso corre il rischio di diventare conflittuale ed eventualmente estinguersi. Per mantenere lo stato di cose esistente, pertanto, è necessario esercitare un controllo continuo sui membri per verificare se sussiste ancora la fedeltà verso la credenza condivisa. È chiaro che il controllo sociale non può essere esercitato che dai rappresentanti della classe dominante, che traggono vantaggio dal mantenimento dello stato di cose esistente. I cambiamenti, viceversa, si danno quando un uomo di grande carisma e autorevolezza rompe alcune regole del gioco religioso e avvia una nuova credenza. Tipico esempio è Gesù di Nazareth che, rifiutando alcuni principi fondamentali dell’ebraismo, dà origine a una nuova religione.
La promessa di una vita dopo la morte (l’immortalità) dà luogo ad un forte senso di appartenenza, che genera coesione e controllo sociale, i quali sono la carta vincente della religione nella storia evolutiva dell’uomo. Superata la prima fase delle origini, la religione perfeziona la sua dottrina e il suo potere. La sua primitiva forma di rappresentazione consiste, generalmente, in un mito della creazione che spiega com’è iniziato il mondo e come i prescelti, che ne condividono la credenza, vi possano arrivare soddisfando la propria sete di conoscenza. Quasi sempre si danno istruzioni e formule segrete cui possono accedere solo gli adepti (per esempio, la cabbala ebraica). L’autorità e il potere discendono dall’alto verso il basso, secondo molteplici livelli d’illuminazione. Si scelgono luoghi sacri in cui invocare gli dèi, praticare riti e perfezionare se stessi. Si ribadisce la verità della propria credenza e la condanna delle credenze altrui.
La prima manifestazione del senso religioso è quella dei cacciatori-raccoglitori, che caratterizza la nostra preistoria, che gli studiosi denominano animismo. L’animismo è la credenza che animali, piante, montagne, fiumi e stelle abbiano un’anima. Gli animisti credono che ogni anima sia uno spirito potente, che deve essere venerato, da cui ricevere il bene o il male. Non esiste alcuna barriera tra gli spiriti e gli umani, essi possono comunicare tra loro attraverso la danza, la musica e le cerimonie rituali. La caratteristica principale dell’animismo è che gli spiriti sono entità locali, come un particolare albero, una particolare roccia o un particolare torrente. Non sono divinità universali che agiscono in base a una gerarchia di regole. L’animismo non è una religione specifica ma un insieme di credenze, molto differenti fra di loro, accomunate dallo stesso modo di rapportarsi alla realtà e agli uomini.
La storia di Homo sapiens evolve rapidamente. Circa 12.000 anni fa si verifica la rivoluzione dell’agricoltura, che cambierà radicalmente e definitivamente la condizione umana. Nel valutarne il significato e la portata, gli studiosi hanno punti di vista diversi. Da una parte, vi sono coloro i quali vedono positivamente in essa l’inizio di uno sviluppo che darà all’umanità prosperità e stabilità. Dall’altra, vi sono coloro i quali la considerano la più grande impostura della storia umana. Vediamone le ragioni.
I cacciatori-raccoglitori erano profondi conoscitori dei segreti delle piante e degli animali che costituivano la principale fonte della loro alimentazione. Formavano piccoli gruppi che si spostavano continuamente alla ricerca della selvaggina da cacciare. Quando un territorio non aveva più animali, si trasferivano in un altro non molto lontano. Non erano stanziali. Queste condizioni di vita erano confortevoli e presentavano alcuni vantaggi. In primo luogo, l’alimentazione era equilibrata e nutriente. Il movimento per la caccia, inoltre, manteneva i loro corpi ben allenati e in perfetta forma fisica. Infine, le malattie erano rare. Quando si parla dell’età dell’oro dell’umanità, è probabile che si faccia riferimento proprio alle condizioni di vita dei cacciatori-raccoglitori.
La rivoluzione agricola diede agli agricoltori maggiore quantità di cibo ma impose anche una vita di stenti, di sofferenze e di malattie. Nella ricostruzione dei fatti storici, vi è la tendenza a ricercare cause rilevanti. Non sempre è così. La rivoluzione agricola non è stata determinata da re, sacerdoti o mercanti ma da alcuni vegetali come il frumento, il riso e la patata. È proprio il frumento che guida la nascita dell’agricoltura. I sapiens cominciano a dedicare sempre maggior impegno nella coltivazione del frumento. Dopo un paio di millenni, il frumento è la coltivazione principale di molte regioni del pianeta. Il frumento, tuttavia, richiedeva un impegno collettivo dall’alba al tramonto. Era necessario togliere il pietrisco dai campi, estirpare le erbacce che lo soffocavano, difenderlo da organismi che volevano mangiarlo, irrigarlo con l’acqua per non farlo seccare, fertilizzarlo con le feci degli animali.
Il prezzo che gli agricoltori dovettero pagare fu alto: gli studi condotti sugli scheletri dei primi agricoltori indicano che il passaggio all’agricoltura produsse malattie come le artriti, l’ernia del disco e le ernie inguinali. L’alimentazione, inoltre, cambiò in peggio. Mentre i cacciatori-raccoglitori si cibavano in maniera equilibrata avendo a disposizione un’ampia varietà di cibi, gli agricoltori si alimentavano quasi esclusivamente di granaglie. Una dieta basata sui cereali è povera di proteine, di sali minerali e di vitamine. Produce una difficile digestione e danni ai denti e alle gengive.
L’attenzione continua che il frumento richiedeva costrinse gli agricoltori a stabilirsi in maniera permanente vicino ai campi coltivati. Questo ebbe, come conseguenza, la costruzione di case stabili e lo sviluppo dei villaggi. Cominciarono le violenze da parte di altri gruppi che volevano appropriarsi del frumento. Oltre alle calamità naturali, come la siccità o le alluvioni, gli agricoltori dovettero imparare a difendersi dagli attacchi provenienti da altri gruppi umani.
La vita stanziale degli agricoltori aveva favorito la domesticazione di pecore, polli, asini, capre e maiali che fornivano cibo (carne, latte, uova), materie prime (lana, pelli) e potenza muscolare per il trasporto (l’aratura e la macinatura). Purtroppo, questi animali trasmisero all’uomo malattie come il vaiolo, il morbillo e la tubercolosi.
L’agricoltura, tuttavia, nonostante le difficoltà che l’accompagnarono, consentì di disporre di più cibo. In tal modo, i sapiens poterono moltiplicarsi in maniera esponenziale. Le eccedenze di scorte alimentari ebbero la conseguenza che un numero sempre maggiore di individui vivesse insieme prima in villaggi e poi in città collegate tra di loro da reti commerciali. I cacciatori-raccoglitori avevano ceduto il posto agli agricoltori. Ormai il dado era tratto. L’umanità ha intrapreso una strada che non consente il ritorno al passato. L’unica cosa che può fare è procedere verso un futuro incerto ma già scritto.
Fu proprio in queste condizioni storiche che fece la sua comparsa la divisione della società in classi. L’elementare economia agricola, basata sulle eccedenze delle scorte alimentari, permise la nascita dei sistemi politici e sociali. Ovunque si imposero gruppi di potere che privavano i contadini delle eccedenze di cibo da loro prodotte, lasciando loro il minimo indispensabile per sopravvivere. Nasce così, nella storia umana, la prima ingiustizia sociale, da cui seguiranno, nei millenni successivi, le lotte di classe descritte e teorizzate da Marx nel Manifesto del partito comunista… nondimeno, proprio da queste eccedenze di cibo sequestrato discendono la politica, la guerra, l’arte e la filosofia. Re, burocrati, soldati, preti, artisti e pensatori costituiscono una élite che dalle stesse trae la sua esistenza e il suo potere. È su tali basi che nascono le grandi civiltà.
In queste particolari condizioni storiche, sociali ed economiche, avviene una profonda trasformazione nel concepire il rapporto uomo-dio. L’animismo dei cacciatori-raccoglitori aveva fatto sedere intorno a una tavola rotonda uomini, animali, piante, fiumi e stelle conferendo loro una pari dignità. L’uomo cacciava il cervo ma non lo considerava inferiore a lui. L’agricoltore, invece, stabilisce un rapporto con gli animali che non è più paritario. Gli animali (pecore, maiali, capre e simili) sono di sua proprietà ed egli ne vuole un controllo assoluto. Eventi come epidemie, terremoti e inondazioni, tuttavia, non dipendono dalla sua volontà. Nasce così il problema di salvaguardare la vita e la fecondità delle greggi. In che modo? La risposta consiste nella invenzione di divinità alle quali gli umani promettono una devozione assoluta in cambio di un totale controllo su animali e piante. Il ruolo delle divinità è quello di mediare il rapporto fra gli uomini, da una parte, e gli animali e le piante, dall’altra. Gli uomini offrono agli dèi sacrifici di agnelli, vino e dolci per avere come contropartita raccolti abbondanti e greggi feconde immuni da malattie.
Nascono, così, le religioni politeistiche. La loro caratteristica fondamentale è che le divinità appaiono personali mentre le loro attività sono circoscritte alla rispettiva sfera di competenza. In tal modo, ciascuna divinità è limitata ed è, a sua volta, limite per le altre. Ciò non esclude una gerarchia che si rivela necessaria per lo svolgimento ordinato delle funzioni che competono a ogni divinità. Il politeismo è una visione della vita per superare l’incontrollabilità degli eventi umani e naturali.
In tal modo, la nascita dell’agricoltura si presenta come un mondo controllato da potenti divinità: la dea della fertilità, il dio della guerra, il dio della pioggia, il dio della medicina e simili. Esse partecipano alle vicende umane manifestando odio o amore, ricompensa o punizione, vendetta o glorificazione. Le passioni degli dèi sono le stesse passioni degli uomini.
Al di sopra della gerarchia delle divinità, si eleva un supremo potere che domina il mondo. Nel politeismo greco, gli dèi dell’Olimpo erano soggetti al Fato, il quale, a differenza degli dèi, era indifferente alle vicende e al destino degli uomini. Per questa ragione, i greci non si rivolgevano al Fato per vincere battaglie, impedire la siccità o guarire da malattie. Né gli erigevano templi.
La nascita dell’agricoltura è il più evidente esempio di come il pensiero umano inventi la religione. I cacciatori-raccoglitori trovavano risposta alle loro esigenze nell’animismo. Le esigenze degli agricoltori non sono più quelle dei cacciatori-raccoglitori. Conseguentemente, l’animismo è per loro inadeguato. Hanno bisogno di nuovi dèi capaci di risolvere i loro problemi economici e sociali. Finisce l’animismo e comincia il politeismo. Nei millenni successivi, quando gli umani costruiranno gli imperi e formeranno reti di comunicazione per diffondere il commercio, il politeismo non basterà più. Sarà necessario, allora, inventare il monoteismo.
Homo sapiens ormai è l’unico ed esclusivo ominide che abita il nostro pianeta e, lentamente ma inesorabilmente, ne sta acquisendo il controllo. Vi sono già tutte le premesse per trarne le possibili conseguenze. Tra queste, assumono particolare importanza, la costituzione dei regni e degli imperi, la nascita della scrittura e il conio delle prime monete.
La rivoluzione agricola aveva trasformato le capanne dei cacciatori-raccoglitori in case stabili che formavano villaggi sempre più ampi fino a costituire le città. L’eccedenza della produzione dei cereali aveva fatto sorgere gruppi dominanti che detenevano il potere. La combinazione di questi due fattori, città sempre più grandi e potere sempre più forte, avevano segnato il sorgere dei regni e degli imperi.
I regni si presentavano come territori, più o meno ampi, in cui il re, coadiuvato da un gruppo di fedeli, esercitava ogni forma di autorità (politica, sociale, economica, culturale e militare). Difendeva i suoi sudditi ai quali però chiedeva parte dei loro averi sotto forma di tasse. La caratteristica fondamentale del regno è che i sudditi presentano elementi in comune, come la lingua, la religione, la cultura.
I regni, tuttavia, si trasformano inevitabilmente in imperi. Ciò avviene quando i re conquistano regioni abitate da popoli che hanno lingua, costumi e religione diversi. L’impero, pertanto, è un ordine politico in cui l’imperatore governa una diversità di popoli, ciascuno dei quali possiede una propria identità culturale e un territorio separato, senza alterare la propria struttura fondamentale e la propria identità statale. I confini dell’impero sono flessibili a causa della conquista di nuovi territori e altri popoli.
Fin dal momento della loro nascita, gli imperi svolgono un ruolo centrale e importante poiché riescono a unificare, almeno sotto certi aspetti, gruppi etnici tanto diversi sotto la stessa insegna del potere, avviando l’umanità verso quel processo di globalizzazione che è giunta a una fase avanzata nel mondo in cui noi oggi viviamo. Il loro contributo alla riduzione della diversità umana è stato ed è ancora rilevante.
Se diamo uno sguardo alla storia umana, troviamo che l’impero è stato la forma di organizzazione politica che ha avuto maggiore successo. Anche a causa della sua stabilità (gli imperi durano secoli), la maggior parte dell’umanità ha trascorso la sua vita all’interno di un impero. I popoli assoggettati, tutto sommato, hanno mostrato di aver gradito la loro subordinazione all’autorità dell’imperatore. I danni di guerre sanguinose e violente, infatti, erano controbilanciati dallo sviluppo delle scienze, delle arti e della filosofia, le cui attività erano finanziate con i proventi delle conquiste. Può sembrare paradossale, ma le più grandi realizzazioni culturali dell’umanità sono una conseguenza dello sfruttamento delle popolazioni conquistate e assoggettate.
L’impero è espressione di una particolare concezione del mondo e della vita, basata sull’unità del mondo, su una serie coerente di principi per governare l’umanità, sul ruolo quasi divino dell’imperatore. Questa visione caratterizza gli imperi assiri e babilonesi. Fu ripresa dai persiani e da Alessandro Magno. Continuò con gli imperatori romani, i califfi musulmani, i principi indiani, gli imperatori dell’Europa, della Cina e dell’America meridionale, per arrivare fino ai nostri giorni con le “superpotenze”.
L’impero così costituito deve essere preservato. Come preservarlo? Con il controllo sociale. L’organizzazione dello Stato nell’impero vede al vertice l’imperatore che è titolare di tutte le forme di potere. Egli le esercita delegando alcune funzioni a una ristretta cerchia di collaboratori, scelti da lui e a lui fedeli. Si forma, in tal modo, la struttura burocratica (che assumerà nel tempo varie denominazioni) di governo dell’impero. Il controllo sociale sarà esercitato da corpi militari addestrati e da una rete di informatori. Il loro compito è quello di segnalare alle autorità le possibili deviazioni dalle leggi esistenti. I rappresentanti delle religioni coadiuveranno l’impero nell’esercizio del controllo sociale.
La funzione del controllo sociale è necessaria poiché, all’interno dell’impero, vi sono individui o gruppi che non condividono quella forma di governo. Le loro trame possono avere la caratteristica della rivolta o della rivoluzione. I cambiamenti sociali si hanno quando esse ottengono il successo. La storia dell’uomo è, pertanto, costituita da gruppi che detengono il potere e vogliono mantenerlo e altri gruppi che lottano per averlo. Così è stato nel passato e così sarà nel futuro. Il controllo sociale sarà rafforzato da fattori che favoriscono la comunicazione all’interno e all’esterno dell’impero: il denaro e la scrittura.
I cacciatori raccoglitori usavano il baratto: lo scambio di merci con merci. Ogni gruppo era autosufficiente e si procurava presso altri gruppi ciò che non aveva ma desiderava. Poco cambiò con la nascita dell’agricoltura. Anche il villaggio era un’unità economica autosufficiente, che si reggeva sui favori reciproci e col baratto con altri villaggi.
La nascita delle città e dei regni segna una svolta decisiva nei rapporti economici fra i gruppi umani. Il baratto è efficace ma solo a condizione che la gamma dei prodotti da scambiare sia limitata. Quando, però, l’economia diventa complessa, il baratto non è più sufficiente. Una delle maggiori difficoltà del baratto sta nel determinare il prezzo delle merci, quando queste sono centinaia, migliaia e forse più. L’intelletto umano, posto di fronte a questa necessità, che potrebbe farlo vacillare, trova la giusta soluzione nel denaro.
Il denaro non esiste in natura ma è una creazione dell’uomo. Il denaro esiste finché si crede in esso. Cessa di esistere quando non si crede più in esso. Nonostante ciò, il potere che esercita sulle attività umane è immenso. In definitiva, il denaro è un sistema universale ed efficiente, basato sulla reciproca fiducia come non era mai stato concepito fino ad allora. Quando furono create le prime forme del denaro, la fiducia in esso era scarsa, per cui fu necessario considerare denaro qualcosa che avesse un valore intrinseco. Il primo denaro nella storia dell’uomo è la misura d’orzo dei Sumeri, che comparve intorno al 3.000 a.C. L’orzo-denaro era semplicemente orzo. La quantità fissa da usare come misura era il sila, che corrispondeva approssimativamente a un litro. Si credeva nell’orzo come denaro poiché si poteva usare anche come prodotto alimentare. Se l’orzo svolgeva la funzione di denaro, esistevano però difficoltà circa la sua conservazione e il suo trasporto.
Questo limite fu superato quando si acquisì fiducia in un denaro che non aveva un valore intrinseco. Il denaro che avesse questa caratteristica apparve nella Mesopotamia intorno al 3.500 a.C. e prese il nome di siclo d’argento. Il siclo d’argento era un pezzo d’argento del peso di 8,33 grammi.
Col passare del tempo, il denaro assume la forma della moneta. Le prime monete della storia furono coniate intorno al 640 a.C. dal re Aliatte di Lidia nell’Anatolia occidentale. Queste monete, in oro o in argento, avevano un peso fisso e portavano impresso un marchio di identificazione, che era costituito dall’effige del re che ne garantiva sia il peso sia l’autorità che le aveva emesse. Ogni contraffazione era da intendere come un atto di sovversione contro il potere costituito e veniva severamente punita. Da queste prime monete discendono tutte le altre forme di moneta fino ai nostri giorni.
Con l’invenzione del denaro si è creato un sistema di fiducia universale, che è stato capace di superare ogni discriminazione rispetto alla lingua, alla religione, al colore della pelle, al sesso e alla cultura. Il denaro è la risposta a un’importante difficoltà che si era manifestata nella comunicazione umana. Ma non basta.
Per milioni di anni, gli esseri umani hanno registrato le informazioni che provengono dal mondo esterno nella loro mente. La mente era il serbatoio di tutte le informazioni, che diventava sempre più insufficiente mano a mano che avveniva il passaggio dal gruppo dei cacciatori-raccoglitori, al villaggio e alla città. La mente, oltre ad avere una capacità limitata, presentava anche l’inconveniente che cessava di esistere con la morte del suo detentore, perdendo così irrimediabilmente tutte le informazioni che essa aveva immagazzinato.
Una prima e parziale soluzione a questa difficoltà si ebbe con l’invenzione dei numeri. I cacciatori-raccoglitori e le prime generazioni di agricoltori potevano anche fare a meno dei numeri, ma per governare un regno o un impero i numeri erano essenziali. Solo attraverso la raccolta di milioni di dati, che andavano catalogati e conservati, si poteva avere un’idea, più o meno approssimativa, della quantità di denaro da far affluire nelle casse dello Stato, per finanziare le molteplici attività, dalla guerra alla cultura. Nessuna mente collettiva avrebbe potuto far fronte a questa esigenza.
Millenni dopo millenni, l’intelletto umano produce e affina i sistemi di calcolo numerico, che interpretano le esigenze delle differenti realtà politiche e sociali. Una svolta decisiva si ebbe nel IX secolo d.C., quando fu inventato un nuovo sistema che poteva immagazzinare ed elaborare i dati matematici con un’efficienza senza precedenti. Era un sistema composto da dieci segni, che rappresentavano i numeri da 0 a 9, definiti numeri arabi. Quando al sistema furono aggiunti i segni di addizione, sottrazione e moltiplicazione si gettarono le basi della moderna matematica.
L’invenzione della matematica contribuì enormemente alla registrazione e alla catalogazione delle attività umane ma mancava ancora qualcosa. Gli obblighi sociali, anche se facilitati dall’uso dei numeri, restavano ancora immagazzinati nella mente degli uomini che presentava le limitazioni sopra esposte. Era necessario trovare una soluzione al problema della gestione dei dati matematici. Furono i Sumeri, che vivevano nella Mesopotamia meridionale, a trovarlo per primi.
Alcuni Sumeri, tra il 3.500 e il 3.000 a.C., inventarono un sistema, denominato scrittura, che consentiva di immagazzinare ed elaborare ogni tipo d’informazione senza doverla tenere a mente. Così facendo, svincolarono il loro ordinamento sociale dai limiti imposti dalla mente, aprendo la strada allo sviluppo di città, regni e imperi. Approssimativamente, nello stesso periodo, gli Egizi inventarono e svilupparono un altro sistema di scrittura, detto geroglifico. Sistemi analoghi furono elaborati anche in Cina intorno al 1.200 a.C. e nell’America centrale intorno al 1.000 a.C.
Una nota di delusione colpisce quando si apprende che i primi testi scritti della storia umana sono banali documenti che certificano pagamenti di tasse e acquisizione di proprietà. Avremmo desiderato che contenessero poesie, riflessioni filosofiche o leggende. L’arte, la scienza e la filosofia, invece, seguono le vicende economiche degli uomini. Marx ha ragione quando afferma che la struttura (economia) e non la sovrastruttura (cultura) è il fattore determinante delle società umane.
Con l’invenzione dei numeri e della scrittura, l’intelletto umano ha fornito gli strumenti necessari per procedere con orgoglio verso il futuro. L’uomo, tuttavia, fa il “gran rifiuto” delle sue immense capacità, ricorrendo ancora una volta alla divinità e subordinandosi alla sua volontà. Quale divinità?
La nascita e gli sviluppi dell’agricoltura erano stati accompagnati da religioni politeistiche, che avevano rimpiazzato l’animismo dei cacciatori-raccoglitori. I millenni successivi sono caratterizzati dalla costruzione degli imperi, sostenuti dall’invenzione del denaro e della scrittura. Il politeismo non basta più. Si avverte l’esigenza di una divinità unica, potente e unificante, che governi il mondo. Nel politeismo, tale divinità esisteva ed era rappresentata da un potere supremo e ineluttabile che nella Grecia antica era denominato “Fato”. Ma il Fato, a differenza degli dèi che erano a lui assoggettati, era indifferente ai desideri e alle preoccupazioni degli uomini. Per quanto potente si potesse immaginare, il Fato non interveniva nelle vicende umane. Ciò di cui si ha ora bisogno è un dio come il Fato ma completamente coinvolto negli eventi storici del popolo che crede in lui. Egli è il dio di questo popolo che difende e sorregge. E è il dio unico e supremo dell’universo. Il primo dei Dieci Comandamenti della Bibbia ammonisce: “Io sono il Signore Dio tuo: non avrai altro Dio fuori di me”. Il dio così inventato è la verità assoluta. Tutti gli altri dèi sono falsi. In questa dichiarazione sono contenute tutte le premesse delle guerre di religione che caratterizzeranno l’umanità nei secoli successivi.
La prima religione monoteista rilevante è l’ebraismo, che inizia con il patto che Abramo, profeta e capostipite del popolo ebraico, stringe con dio. Abramo è il primo uomo ad avere l’intuizione che esiste un solo dio creatore del mondo. La cronologia della Bibbia colloca Abramo intorno al 2.000 a.C. Ma il vero e proprio fondatore della religione ebraica è Mosè, la cui esistenza viene fatta risalire al 1.200 a.C.
L’ebraismo, tuttavia, anche se presenta tutte le caratteristiche del monoteismo, è la religione di un solo popolo, quello ebraico. In esso manca il requisito del proselitismo. Nonostante tale limitazione, l’ebraismo genera due religioni che fanno del proselitismo una caratteristica fondamentale: il cristianesimo e l’islam.
Il cristianesimo esordisce come una setta ebraica che ben presto si sarebbe estinta se Paolo di Tarso non avesse deciso che il messaggio di Gesù dovesse essere trasmesso non solo agli ebrei ma anche agli altri popoli. Fu così che il cristianesimo divenne religione di Stato dell’Impero Romano, con Costantino il Grande.
Anche un’altra religione, nata nel VII secolo d.C. nella penisola araba come setta religiosa, esce rapidamente ma ineluttabilmente dai deserti dell’Arabia e conquista un immenso impero, esteso dall’oceano Atlantico all’India. Si tratta dell’Islam. Da questo istante, ebraismo, cristianesimo e islam diventano i protagonisti nella storia dell’umanità.
Le religioni monoteiste hanno presentato, fin dalle origini, un problema di non facile soluzione: il male. Come è possibile che un dio infinitamente buono abbia permesso al male di produrre dolore e sofferenza all’uomo? Teologi e filosofi hanno scritto innumerevoli libri per dare risposta a tale interrogativo. Tra le tante soluzioni, vi è quella del libero arbitrio che dio ha concesso all’uomo e che l’uomo userebbe per agire secondo il male. Si potrebbe obiettare che, se dio è onnisciente, perché ha creato un uomo che sapeva avrebbe agito male? Sembra che, all’interno del monoteismo, qualsiasi soluzione al problema del male faccia sorgere problemi altrettanto insolubili. In definitiva, non esiste soluzione soddisfacente al problema del male.
Partendo proprio dal problema del male, sorgono alcune religioni, dette dualiste, che postulano l’esistenza di due poteri indipendenti e contrapposti: il Bene e il Male. L’universo è inteso come campo di battaglia in cui le due polarità si fronteggiano. Le vicende umane altro non sono che il risultato di questa lotta cosmica ed eterna.
Se le religioni dualiste possono dare una soluzione soddisfacente al problema del male, vanno incontro a una difficoltà: chi decide le regole mediante cui le forze del bene e del male si fronteggiano? Dovrebbe essere un’entità che le sovrasta? Se sì, quale? Non vi dovrebbero essere regole? Allora la lotta è dominata dal caos. Anche qui la soluzione di un problema fa nascere altri problemi. Si comincia a intravedere le dispute dottrinali che affliggeranno teologi e filosofi nei secoli successivi.
Il ruolo delle religioni dualiste, nella storia umana, è tutt’altro che marginale. La sua forma più antica e importante è lo zoroastrismo, che intorno al 1.500-1.000 a.C. fu attivo nell’Asia centrale. Il suo fondatore Zoroastro considera il mondo come campo di battaglia in cui il dio del bene combatte contro il dio del male e gli umani sono alleati del dio del bene. Lo zoroastrismo esercitò un influsso su tutte le religioni del Medio Oriente e dell’Asia centrale e ispirò il manicheismo, che si diffuse rapidamente dalla Cina al Nord Africa e fu rivale del cristianesimo nell’attribuzione della qualifica di religione di Stato da parte dell’imperatore Costantino.
Sarebbe un errore pensare che la nascita di una nuova religione segnasse l’estinzione della precedente (o precedenti). In realtà, le religioni anteriori vengono assorbite in quelle successive. Così il cristiano crede nell’unico dio monoteistico ma anche nel diavolo dualista, nei santi politeistici e negli spiriti animistici (es.: la statua della madonna che piange).
In Occidente sono considerate religioni anche il buddhismo, l’induismo e il confucianesimo. Secondo le fonti buddhiste Gautama nasce a Lumbini, nel Nepal settentrionale, nel 556 a.C., ed era l’erede al trono di un piccolo regno sull’Himalaya. Egli era profondamente afflitto dalle sofferenze che vedeva in uomini, donne, bambini e vecchi. Le cause della sofferenza non erano solo quelle esterne prodotte da guerre, malattie e calamità naturali, gli esseri umani soffrivano anche a causa dell’ansia che tormentava le loro menti. Gli uomini, anche quando accumulavano conoscenze e costruivano palazzi e città, non erano mai soddisfatti. Chi viveva in povertà sognava le ricchezze. Chi aveva ricchezze ne desiderava sempre di più. Chi aveva raggiunto il successo era tormentato dall’angoscia di perderlo. La vita è sempre vissuta come un correre insensato verso qualcosa che non si ha, ma si desidera fortemente. Come evitarlo?
Quando aveva ventinove anni Gautama abbandonò il proprio palazzo, i suoi famigliari e tutto ciò che possedeva. Come se fosse un vagabondo viaggiò per tutta l’India settentrionale alla ricerca del modo mediante cui superare la sofferenza. Poiché dal mondo circostante non arrivava la soluzione, iniziò un viaggio all’interno di sé, che avrebbe continuato finché non avesse scoperto un metodo per liberarsi totalmente del dolore e dall’afflizione. Dopo sei anni di meditazione giunse a comprendere che la sofferenza non è causata dalla sfortuna, dall’ingiustizia o dal capriccio degli dèi, ma dalla mente umana. La sua intuizione fu che la mente crea il desiderio e il desiderio inappagato crea la sofferenza. Quando la mente sperimenta il dolore, desidera liberarsene. Quando sperimenta qualcosa di piacevole, desidera che il piacere continui. Quando il dolore non va via o il piacere finisce, vi è la sofferenza. La mente, sempre insoddisfatta, genera la sofferenza.
Gautama scoprì che c’era un modo per uscire dalla sofferenza. La mente deve accettare le cose come sono. In tal modo, non vi sarà il desiderio che siano diverse. Se non c’è il desiderio inappagato, non ci sarà neanche la sofferenza. Se provi dolore senza desiderare che esso sparisca, continuerai ad aver dolore ma non ne soffrirai.
In che modo la mente può accettare lo stato delle cose senza desiderare altro? Come si fa ad accettare il dolore in quanto dolore? Gautama inventò tecniche di meditazione, che addestrano la mente a vivere la realtà quale essa è, e non quale si desidera che essa sia. Quando le fiamme del desiderio sono completamente estinte, si raggiunge uno stato di serenità detto nirvana.
Secondo la tradizione buddhista, Gautama raggiunse il nirvana e si liberò totalmente dalla sofferenza. Divenne noto come “Buddha”, che significa “risvegliato”. Egli condensò i suoi insegnamenti in una sola legge: “La sofferenza sorge dal desiderio. Il solo modo per essere completamente liberi dalla sofferenza è liberarsi completamente dal desiderio. Il solo modo di liberarsi completamente dal desiderio è preparare la mente a vivere la realtà quale essa è”.
La regione centro-meridionale dell’Asia, che comprende India, Bangladesh, Bhutan, Maldive, Nepal, Pakistan e Sri Lanka, è il luogo in cui sono nati l’induismo, il buddhismo e il giainismo. L’induismo è ritenuto una delle più antiche concezioni dell’uomo e della vita, le cui origini risalgono alla preistoria. L’induismo può essere considerato come un insieme di regole pratiche per vivere una vita felice, che ruota intorno ad alcuni aspetti fondamentali: il dharma, il karma e il moksha.
Per dharma, s’intende l’ordine di tutte le leggi morali che definiscono i concetti di “armonia”, “condivisione” e “pace tra i popoli, che sostengono e conservano la vita umana nella sua essenza, sia individuale sia sociale.
Il karma esprime, invece, il rapporto di causa-effetto nella condotta dell’uomo, il quale è dotato di libero arbitrio che pone il suo destino interamente nelle sue mani. Si può anche dire che l’uomo è il risultato finale di ciò che ha compiuto nel suo passato e l’unico responsabile di quanto farà nel suo presente e nel suo futuro.
Come per il buddhismo non si nega la divinità (intesa non nel senso delle religioni monoteistiche), che trova la propria espressione nella moksha (la liberazione dalla propria individualità psicofisica mediante il riconoscimento dell’identità tra il principio dell’io e l’ātmàn universale), ma si afferma che per le decisioni dell’uomo essa è irrilevante.
Altra religione è considerata il confucianesimo, che prende il nome dal suo fondatore Confucio, nato in Cina (551-479 a.C.). Si tratta di una concezione della vita in cui si ipotizza una mitica età dell’oro all’inizio della civiltà, da cui l’umanità sarebbe andata progressivamente decadendo, per arrivare a un’epoca, quella di Confucio, caratterizzata da una grave crisi economica, sociale e spirituale. Per uscire da questa crisi l’uomo dovrà far ritorno al passato per restaurare l’antica età dell’oro. Quali sono i mezzi per restaurarla? La pratica delle virtù e l’esercizio dello studio.
Numerose sono queste virtù: la bontà, l’altruismo, la giustizia, la lealtà, la sincerità, la sapienza e la pietà filiale. Quest’ultima è un elemento indispensabile per una società ordinata, incentrata sul rispetto dei superiori. Il confucianesimo crede in una società fortemente gerarchizzata, non solo nello Stato ma anche nella famiglia e nel rapporto fra uomo e donna. La pietà filiale si identifica anche con l’amore e il rispetto di tutto ciò che appartiene al passato. Ne deriva una forma di conservatorismo incondizionato.
L’esercizio delle virtù, tuttavia, deve essere accompagnato dallo studio. Studiare significa accostarsi ai testi filosofico-letterari classici per capire quale insegnamento trarne.
Il miglioramento dell’individuo non è mai visto come fine a sé o in funzione di una ricompensa ultraterrena, ma sempre nell’ambito della società in cui si vive e opera. Comportandosi bene, praticando le virtù e dedicandosi allo studio, l’uomo potrà contribuire al miglioramento di sé e della società.
Nella civiltà cinese, il posto occupato dalla filosofia è paragonabile a quello tenuto dalla religione nelle altre civiltà. Osservando la vita del popolo cinese, permeata di confucianesimo, l’Occidente ritiene che il confucianesimo sia una religione… in realtà, è una religione non più di quanto lo sia il platonismo. La filosofia è intesa come pensiero sistematico e riflessivo sulla vita. Il filosofo deve pensare riflessivamente sulla vita e quindi esprimere sistematicamente i propri pensieri. Tale tipo di pensiero è denominato riflessivo perché prende a suo soggetto la vita. Quando si dice che l’etica, non la religione, è il fondamento spirituale della civiltà cinese, ciò significa forse che i cinesi non hanno consapevolezza di valori più alti degli stessi valori morali? Certamente no. Nella loro visione della vita esistono i valori metamorali che sono valori più alti dei valori morali. L’aspirazione a qualcosa di là dal mondo presente e attuale è uno dei desideri innati dell’umanità e il popolo cinese non fa eccezione alla regola. Mediante la filosofia soddisfano l’aspirazione verso ciò che sta oltre il presente e l’attuale, esprimono e apprezzano i valori metamorali e, vivendo secondo filosofia, fanno esperienza di tali valori.
Secondo la tradizione cinese, la funzione della filosofia non è quella di aumentare la conoscenza del mondo esterno ma di elevare lo spirito, che significa tendere verso valori più alti dei valori morali, oltre il mondo presente e attuale. La religione invece pretende di informare circa la realtà esterna, ma quanto essa ci offre non è in armonia con i risultati della ricerca scientifica (la narrazione della Bibbia sulla creazione del mondo con coincide con la “teoria del Big Bang”). Fortunatamente oltre la religione esiste la filosofia, che offre all’uomo una via di accesso diretta ai più alti valori: prima di ogni altra cosa la libertà da superstizione e dogmi. Conforme alla tradizione cinese, nel mondo futuro, l’uomo sostituirà la religione con la filosofia.
Nella storia della filosofia cinese esiste un fondamento comune che ne è considerato lo spirito. Per intenderlo è necessario rispondere alla seguente domanda: “qual è la più alta forma di sviluppo di cui un uomo è capace?”. Secondo i filosofi cinesi è quella del “saggio” mentre l’ideale del saggio è l’identificazione dell’individuo con l’universo. Ma coloro che desiderano raggiungere tale identificazione devono necessariamente abbandonare la società e perfino negare la vita? Secondo alcuni filosofi, ciò è necessario. Solo così si può raggiungere la liberazione finale. Tale orientamento filosofico è chiamato “filosofia ultramondana”.
Vi è un altro orientamento filosofico che pone l’accento, invece, sulla società e le relazioni umane. Tale filosofia parla solo di valori morali e non di valori metamorali ed è detta “filosofia di questo mondo”. Dal punto di vista di una “filosofia di questo mondo”, una “filosofia ultramondana” è troppo idealistica e non ha una funzione pratica. Dal punto di vista di una “filosofia ultramondana” una “filosofia di questo mondo” è troppo realistica e superficiale.
Molti ritengono che la filosofia cinese sia una filosofia di questo mondo. Non si può dire che hanno interamente ragione e nemmeno che si sbagliano del tutto. La conclusione è che la principale corrente della filosofia cinese non può essere considerata tutta di questo mondo, come non può essere considerata tutta ultramondana. Il compito della filosofia cinese è quello di creare una sintesi tra le due correnti. Come è possibile ciò?
Secondo la filosofia cinese è saggio colui che riesce a creare tale sintesi, non solo in teoria, ma anche in pratica. Tutto ciò trova espressione nell’affermazione: “saggezza interiore e regalità esteriore”. Nell’interiore saggezza il saggio compie la propria educazione spirituale, nell’esteriore regalità adempie la sua funzione sociale. Il compito della filosofia è di rendere l’uomo capace di sviluppare tale caratteristica della saggezza.
Il riferimento alla teoria platonica del filosofo-re risulta evidente. Ne La Repubblica, Platone sostiene che nello Stato ideale il filosofo dovrebbe essere il re o il re dovrebbe essere un filosofo. Per divenire un filosofo l’uomo deve sottoporsi a un lungo periodo di educazione filosofica, affinché possa convertirsi dal mondo delle cose mutevoli al mondo delle idee eterne. Così, anche per Platone, come per i filosofi cinesi, il compito della filosofia è quello di rendere l’uomo capace di saggezza interiore e regalità esteriore.
I filosofi cinesi sono tutti, sia pure in diverso grado, dei Socrate, poiché conoscenza e virtù sono unite e inseparabili. Alcuni aspetti del pensiero di Confucio e di Socrate sono incredibilmente simili, come lo è la prossimità nel tempo della loro vita. Confucio muore a Lu, in Cina, nel 479 a.C. mentre Socrate nasce ad Atene nel 470 a.C. Più o meno nello stesso periodo, ma in luoghi diametralmente opposti, l’intelletto umano produce la stessa visione dell’uomo e della vita.
Una conseguenza che ne discende è che la filosofia è inseparabile dal pensiero politico. È questo il contesto filosofico e culturale in cui opera Confucio. Il compito principale del suo insegnamento è quello di fare in modo che i suoi discepoli siano “uomini completi”, utili allo Stato e alla società. Per ottenere tale risultato egli trasferiva loro il patrimonio culturale della tradizione secolare, che interpretava secondo i suoi concetti morali.
Oltre alle nuove interpretazioni date ai classici, Confucio aveva proprie idee circa l’uomo, la società e il Cielo. Egli riteneva che, per avere una società ben ordinata fosse necessario portare a compimento l’operazione da lui definita “il raddrizzamento dei nomi”, che consiste nel far corrispondere le cose ai nomi mediante cui se ne parla. Le cose, quindi, dovrebbero corrispondere alla loro essenza ideale. L’essenza di un governante, ad esempio, corrisponde a quello che il governante dovrebbe essere idealmente, che in cinese è chiamata “la via del governante”. Se un governante agisce secondo “la via del governante”, allora egli è governante di fatto oltre che di nome, poiché vi è accordo tra il nome e la realtà effettuale. Se però egli agisce differentemente, egli non è governante anche se tale viene ufficialmente considerato. Ogni nome riguardante rapporti sociali implica determinate responsabilità e doveri. Governante, ministro, padre, e figlio sono tutti nomi di relazioni sociali e l’individuo che possiede tali nomi deve adempiere alle responsabilità e ai doveri del suo nome. Anche qui il riferimento alla “teoria della corrispondenza” di Aristotele è ben evidente. Confucio non poteva conoscere il pensiero di Aristotele, che nascerà nel 384 a.C. a Stagira in Grecia. Come Aristotele non poteva conoscere il pensiero di Confucio.
Per quanto riguarda le virtù dell’uomo, Confucio esalta i valori della “rettitudine” e della “sensibilità umana”. Rettitudine è un imperativo categorico: per ogni uomo esistono particolari doveri, che egli deve compiere per sé perché corrispondono a ciò che moralmente deve essere fatto. Se l’uomo compie il proprio dovere per ragioni non-morali, allora egli non agisce secondo rettitudine, ma agisce secondo il “profitto”. Nel confucianesimo, rettitudine e profitto sono termini diametralmente opposti.
L’idea di rettitudine, che è piuttosto formale, è strettamente connessa con quella di “sensibilità umana”, che è molto più concreta, il cui significato è “amare gli altri”. Solo colui che veramente ama gli altri è capace di adempiere i propri doveri nella società. L’amore per gli altri si traduce in “non fare agli altri quello che non desideri sia fatto a te”. Con questa regola aurea il confucianesimo entra nella tradizione dei principi morali universali.
Dalla rettitudine Confucio deriva l’idea di “fare per niente”: l’uomo retto fa ciò che deve essere fatto semplicemente perché è la cosa giusta da farsi e non per nessun’altra ragione estranea al suo impulso morale. La vita stessa di Confucio è testimonianza di questo insegnamento. Vissuto in un periodo di grandi disordini politici e sociali, egli fece del suo meglio per riformare il mondo. Si recò dovunque e, come Socrate, conversò con tutti. Sapeva di non poter riuscire, ma non si perdette mai d’animo. Riconoscendo l’inevitabilità del mondo quale esso è (anche Buddha pensava al mondo nello stesso modo) diventa irrilevante il proprio successo o insuccesso esteriore. Saremo liberi da ansietà per quanto riguarda il successo e liberi da paura per quanto riguarda l’insuccesso, solo così potremo essere felici.
Lo sviluppo spirituale di Confucio è il passaggio graduale e continuo verso livelli più alti di conoscenza. A 15 anni egli si volse con amore allo studio. A trent’anni poteva prendere il suo posto nel mondo. A quarant’anni non aveva più dubbi. A cinquanta e sessant’anni egli conosceva il decreto del Cielo, che conteneva i valori metamorali, e a questo era obbediente. In ciò Confucio ricorda Socrate, il quale credeva di essere stato scelto dal volere divino per svegliare i greci. Anche Confucio lo pensava. A settant’anni egli lasciò che il proprio spirito seguisse ogni sogno, perché non aveva più bisogno di una guida consapevole. Aveva raggiunto l’ultimo stadio nello sviluppo del saggio.
Dopo le evidenti analogie tra il pensiero di Confucio e quello di Socrate, Platone e Aristotele, vorrei sottolineare anche le analogie col pensiero di Buddha. I presupposti filosofici sono simili ma con una differenza fondamentale: Buddha indaga la mente dell’uomo, Confucio la società umana. Confucio, Buddha e Socrate sono i giganti della filosofia pratica che studia l’uomo, la sua natura e le sue finalità.
Ho ritenuto opportuno presentare con maggiore completezza la visione della società e dell’uomo in Confucio perché io ritengo che, nel futuro dell’umanità – in un’unica società globalizzata – sarà proprio essa a prevalere.
Per la cultura occidentale il buddhismo, l’induismo e il confucianesimo sono religioni. Dalla presentazione che ne ho fatto, tuttavia, non si evince nulla che possa giustificarlo, a meno che non sosteniamo che essi sono religioni senza divinità. Che senso avrebbe? Tutte le definizioni di “religione” concordano sull’esistenza di un dio che crea il mondo e l’uomo. L’uomo instaura con dio un rapporto che durerà fino alla morte. Le religioni qui esaminate (animismo, politeismo, monoteismo, dualismo) stabiliscono, in maniera diversa, il rapporto fra uomo e dio. Come potrebbe essere l’Islam senza Allah? La conclusione è che una concezione del mondo, della vita e dell’uomo è religione se, e solo se, esiste una divinità che ne giustifica l’esistenza. Parlare di religione senza dio è un’assurdità. Tale modo d’intendere la religione trova conferma anche nella storia evolutiva dell’uomo, come ho mostrato nelle pagine precedenti. La religione nasce quando Homo sapiens arcaico concepisce un mondo, diverso da quello in cui egli abita, popolato da spiriti. Da quel momento, tutte le forme di religione hanno presupposto l’esistenza della divinità.
Nel buddhismo, nell’induismo e nel confucianesimo non vi è alcuna traccia di divinità. Vi è solo l’uomo di fronte ai problemi della vita. Nel buddhismo il problema è la sofferenza, nell’induismo e nel confucianesimo la riflessione è tutta incentrata sulla società, che deve essere ordinata secondo valori etici. È l’uomo, e solo l’uomo, che ricerca, con le sue capacità, la soluzione di questi problemi. Mai invoca una divinità per chiedergli aiuto e conforto. Se gli dèi esistono, allora non possono far altro che condividere ciò che gli uomini decidono. Se l’uomo soffre, nessun dio può aiutarlo. Se l’uomo trova il modo di uscire dalla sofferenza, nessun dio può ostacolarlo. Dio, quindi, non serve all’uomo. Può anche non esistere. Questo è il messaggio di Buddha e di Confucio all’umanità. L’induismo non ha un fondatore.
Se il buddhismo, l’induismo e il confucianesimo non sono religioni, allora che cosa sono? Sono espressioni di una filosofia pratica concernente l’uomo, la sua natura e le sue finalità. Mentre l’antropologia filosofica riguarda l’uomo, la natura e dio ed è onnicomprensiva, la filosofia pratica è un ritaglio all’interno dell’antropologia filosofica generale che si occupa specificamente dell’uomo. Dell’uomo si ricerca il modo di superare la sofferenza. Dell’uomo, si ricerca il modo per vivere in una società ordinata regolata da valori. Tutto ciò che è al di fuori di questo ritaglio è irrilevante.
Nel corso dell’evoluzione naturale, l’intelletto umano ha fornito gli strumenti necessari per procedere con orgoglio verso il futuro. L’uomo, tuttavia, invece di esprimere le sue immense capacità, che ne fanno il dominatore assoluto del pianeta Terra, fa il “Gran rifiuto”, ricorrendo ancora una volta alla divinità e subordinandosi alla sua volontà. Solo le menti illuminate di Buddha, Confucio, Socrate e Orfeo si staccano dal coro e intonano una musica solitaria e inascoltata. L’umanità ha oscurato per millenni la luce che emana da loro coprendola con le divinità. Così, alla fine della storia, l’uomo, dotato di un intelletto che potrebbe farne il dominatore assoluto del mondo, accetta il suo destino di servo della volontà divina. Per noi, che non crediamo alle favole, ciò significa l’assoggettamento totale non a un dio inventato e inesistente, ma a un gruppo di uomini che nel nome di dio compie ogni sopruso e ingiustizia. Io ho la speranza che in un futuro prossimo questo stato di cose precipiti nell’abisso dell’oblio e che dalle sue ceneri rinasca l’araba fenice che porti al trionfo della filosofia pratica di Buddha, Confucio, Socrate e Orfeo, i nuovi cantori dell’umanità.
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Calendario delle Prossime Lezioni:
Lezione 3ª: FILOSOFIA PRATICA E MASSONERIA I FONDAMENTI DELL’ANTROLOGIA MASSONICA
Lezione 4ª: MASSONERIA E CHIESA CATTOLICA STORIA DI UN DIALOGO TRA SORDI
Lezione 5ª: MISTICISMO E MASSONERIA IL TENTATIVO DI ANDARE OLTRE LA RELIGIONE
1 commento
Grazie professore La ringrazio infinitamente per questi Suoi articoli.
Le porgo una domanda in merito a questo passaggio
“Ho ritenuto opportuno presentare con maggiore completezza la visione della società e dell’uomo in Confucio perché io ritengo che, nel futuro dell’umanità – in un’unica società globalizzata – sarà proprio essa a prevalere.”
Non ritiene che per poter far questo ogni uomo, prima, debba indagare la sua mente?
Non crede che esista il rischio che una unica società globalizzata sarà un dominio controllato piuttosto che libero, le cui redini saranno tenute da controlla le nuove tecnologie (IA, metaverso)?