di Orthelius
Il presente Lavoro si propone come un approfondimento, sui rilevanti significati filosofico-iniziatici dell’Orfismo, all’articolo del Prof. Giuliano Di Bernardo dal Titolo: “IL FONDAMENTO ESOTERICO DELL’UMANITÀ”
Premessa
Trattare l’Orfismo, anche imponendosi i limiti di una summa, è impresa difficoltosa, e lo è per vari motivi. Intanto la frammentarietà delle fonti autoriali: ne parlano un po’ Platone, un po’ Plutarco, Euripide (nella tragedia Ippòlito del 428 a.C., per bocca di Teseo)… e non sempre per il bene; poi, soprattutto, l’impervia ricostruzione delle risultanze testuali (inni, canti, ecloghe), resa macchinosa dalle ambiguità che traspaiono dai diversi frammenti.
Un’altra complicanza viene dalla varietà di tematiche che questo movimento – o sistema religioso – porta con sé, che caratterizza la dottrina che qualifica il suo mitico fondatore, Orfeo, figlio di Eagro re di Tracia (per altri di Apollo stesso), e della Musa Calliope; quindi il canto, l’arte, la divinazione, il vegetarianesimo… ma soprattutto l’Aldilà, l’immortalità dell’anima e la metemsomatosi (ossia la credenza circa la trasmigrazione delle anime da un corpo all’altro, dopo la morte), poi, in ultimo – ma non certo per importanza –, la generale devianza nei confronti della cultura della πόλις e delle sue regole, a tutto vantaggio del mondo “selvatico”.
Quanto descritto, tuttavia, non deve intimidire, con l’Orfismo siamo infatti nel pieno della cesura storica che si produce tra l’ancestrale memoria sciamanica delle stirpi indoeuropee, da cui anche gli achei derivavano, e la nascita della filosofia presso le colonie ioniche dell’Asia Minore (tra tutte Mileto, Efeso e Samo). Appare quindi perfettamente naturale che i criteri valutativi debbano aprirsi ad interpretazioni differenti da quelle legate ai meri riscontri documentali (peraltro, lo abbiamo già detto, alquanto etorogenei).
Questo non significa che il materiale a disposizione vada “piegato” a ricostruzioni orientate, semmai si profila come necessario interpretare i testi disponibili alla luce di una metodologia d’indagine multidisciplinare.
Ad esempio, la circostanza – attestata dal mito – che ad un certo punto si introdusse una enucleazione dell’Orfismo dal culto dionisiaco (da intendersi come la correzione degli eccessi orgiastici di quest’ultimo, indotti dall’alterazione dello stato di coscienza ottenuta attraverso l’uso di sostanze psicotrope) sta a significare che si manifestò, nella società greca più periferica alle Città-stato e al loro rassicurante Pántheon religioso ufficiale, un incontro-scontro tra due sensibilità differenti, storicamente, quanto geograficamente, riconducibili l’una alla Tracia, l’altra alla Creta minoica. Così, da un lato, l’esigenza di ereditare le credenze sulla “possessione” divina in stato di trance e la chiaroveggenza, dall’altro, la volontà di accordarle – quanto più possibile – con pratiche meno superstiziose di ascesi, nel solco ordinato dei Culti misterici.
Dalla “gloria” omerica alla coscienza etica
Ma facciamo un passo indietro. La società greca tra il IX ed il VIII secolo a.C. è profondamente caratterizzata da un politeismo antropomorfico perfettamente espresso nei poemi omerici.
Le divinità incarnano i vizi e le migliori virtù umane e, come gli umani, soggiaciono alla potenza del Fato (si gioca qua la proverbiale “tragicità” del pensiero greco).
Le prerogative psicologiche e fisiche degli uomini vengono negli dèi accentuate, così il coraggio, la vigoria fisica, l’astuzia, l’ardore, etc.… tutte qualità possedute, al massimo grado, anche dagli eroi. Questi, con il rango di semidei (ad essi difetta l’immortalità), sono l’espressione manifesta della “religione omerica”, per la quale la lotta, l’audacia ed il morire coraggiosamente rappresentano la falsariga, leggendaria e mitica, dell’atteggiamento culturale di una popolazione maschile rozza, guerriera, dedita alla razzia e all’usurpazione.
Così la “gloria” omerica è la fama, che si estrinseca nel canto (necessariamente orale, poiché la parola è “vita”) dei poeti. Il “nome” dell’eroe, pronunciato sulle labbra d’ogni uomo (e delle donne), ammanta di significato un’esistenza. Mentre le “gesta” travalicano la morte, stagliandosi sul destino di coloro i quali sanno consegnarsi all’esito sempre incerto della battaglia.
E poco importa se le condotte possono talvolta assumere il carattere dell’ingiustizia o, peggio, dell’empietà. Non esiste una giustizia mondana, e non è per nulla valutata l’eventualità di una giustizia “superiore” o oltremondana, tutto è lasciato alla legge del più forte. O meglio: al favore degli dèi.
Il filosofo Eustachio Paolo Lamanna, nella sua opera Storia della Filosofia, vol. I: “Il pensiero antico”, ha modo di notare che: «La coscienza della dipendenza della vita umana dal volere e dalla potenza degli dèi non si traduce [ndr: nella società greca arcaica] in una visione etica della vita o nella concezione morale dell’attività umana. La volontà degli dèi è capricciosa e irritabile: e per quella forza da cui essa è limitata, il Destino, dispiega in rapporto agli uomini un’azione cieca che non fa distinzione tra buono e cattivo nell’assegnare a ciascuno la sua sorte. Né vi è idea di giustizia divina: le punizioni degli dèi non sono che vendette di questi contro quegli uomini che hanno osato opporsi al loro volere capriccioso e passionato. Ciò che l’uomo chiede al favore degli dèi è solamente il conseguimento dei propri fini egoistici, e anche la preghiera e il sacrificio hanno il carattere gretto di vero contratto…».
Questa, dunque, la fede di Achille e dei suoi compagni… resa feroce dal sole, dalla natura impervia dell’ambiente costiero e dai venti salmastri del Mediterraneo; un sentimento dai contenuti immanentisti. Una visione esistenziale materialistica.
Ad un certo punto, però, questa concezione s’incrina, e la frattura che si determina instaura un nuovo punto di vista sull’uomo. L’Orfismo, in questo senso, si configura come la prima antropogonia. Il mitologema orfico, infatti, elabora non solo una genesi dell’universo alternativa a quella di Esiodo – che è quella rispondente alle opere di Omero – ma una vera e propria dottrina antropologica e psicologica, fino ad allora assente.
Con essa l’esistenza umana assumerà un significato capace di risplendere ben oltre lo scintillio delle armi, discostandosi fortemente dalla narrazione che aveva dato del mondo, fino ad allora, il medioevo ellenico.
La stessa cosmogonia cessa di essere quella ϑεογονία in cui il modello della “genealogia” riguardava soltanto gli dèi e i loro antenati comuni. Un’elaborazione per la quale se una “regola” – o ratio – deve esistere nel cháos che agita la Natura, allora questa non può che risiedere nell’ordine divino, e riguardare solo quello; l’uomo, in quanto tale, non è contemplato: esiste soltanto, è – cioè – un “ente” già dato, espressione meccanica di forze che lo avvolgono e lo sovrastano.
Per l’Orfismo no: accanto al racconto sulla nascita degli dèi, che gli è comunque proprio ed ha sue particolari caratteristiche (lo ritroviamo, ad esempio, nel De mundo dello Pseudo-Aristotele, del 350/200 a.C., e nel papiro orfico di Derveni, databile intorno alla metà del IV secolo a.C.), si colloca soprattutto il discorso sull’origine degli uomini, che si dipana sì dal mito di Dioniso, ma contiene qualcosa in più…
Partiamo dall’inizio: intanto la prima generazione di Dioniso lo fa coincidere con Phanes, princìpio ancestrale emerso agli albori dell’universo dall’uovo cosmico, deposto da Chronos (il Tempo) ed Ananke (la Necessità), quale fattore originario ed unitario del Tutto. Phanes viene successivamente divorato da Zèus; poiché senza questa “ingestione” Zèus stesso non avrebbe potuto essere pantocràtore.
Nel continuo processo di morte e rinascita Zèus rigenera Phanes, che prende corpo in Zagreo. E qua il discorso si fa interessante… primo, perché Nonno di Panopoli, nel Libro VI delle Dionisiache, ci informa che Zagreo era sì figlio di Zeus, ma anche di Persefone, figura fondamentale dei Misteri eleusini insieme alla madre Demetra, che di questi era stata l’istitutrice; secondo, perché in questa rigenerazione si può scorgere quel princìpio diveniente del mondo il cui porsi è lo stesso continuo racchiudersi del molteplice nell’Unità originaria, come pure il significarsi dell’Uno nella propria intrinseca ed infinita possibilità.
Fatto sta che anche Zagreo muore, ucciso dai Titani con un pugnale venuto dal Tartaro, intanto che guarda la sua falsa immagine riflessa in uno specchio. I Titani sono stati mandati da Era, gelosa del tradimento del marito… Mentre questi lo fanno a pezzi, sezionandolo, Atena riesce a strappare alla loro furia il suo cuore e lo porta a Zèus, che lo inghiotte. Ciò permette al Signore dell’Olimpo una nuova generazione: Zagreo rivive in Dioniso.
Non è finita, naturalmente. Dal Protrettico 17, 2 – 18, 2 di Clemente Alessandrino (che è un apologeta cristiano del II secolo d.C.) apprendiamo sia che Dioniso ha per madre Semele (figlia di Cadmo, uccisore del drago e fondatore di Tebe) sia che Zèus, fattosi prudente a motivo della precedente esperienza, e volendo celare il nuovo frutto del peccato alla moglie Era, nasconde Dioniso in un posto sicuro e gli fa continuamente ruotare attorno, danzando, i Cureti, affinché il suono delle loro armi, battute sugli scudi, copra i vagiti del neonato.
Nondimeno, i Titani anche questa volta riescono a scovarlo, e con l’astuzia (camuffando i loro volti con polvere di gesso), e dei giocattoli, lo ingannano, fino a sottrarlo alla protezione dei suoi custodi. A questo punto lo fanno nuovamente a pezzi, «benché fosse ancora un bambino, come narra Orfeo il Trace», scrive Clemente Alessandrino.
Zèus scopre l’abominio e inorridito folgora seduta stante i Titani. In tal modo si arriva all’origine degli uomini.
Di essa ci parla Olimpiodoro il Giovane, nei Commenti (Σχόλια) a Platone, Fedone, 1, 3, 3-14. Qua sono i Titani a far da scorta a Dioniso, ed anche stavolta sono loro a farlo a pezzi, in seguito ad una nuova macchinazione di Era. In questo caso, però, viene pure riferito che essi riescono a cibarsi delle sue carni. Compiendo quel consumo rituale che già Demetra aveva scongiurato, nella forma dell’ōmophagia, con l’insegnamento a Trittolemo (quindi agli uomini) dell’arte dell’agricoltura.
Anche in questa ricostruzione Zèus non sta a guardare: fulmina i Titani e li incenerisce, o meglio: li “calcina”, come lascia intendere il loro etimo, che si riferisce proprio alla calce viva, in greco τίτανος.
In questa “operazione” l’elemento terroso si mescola con il fuoco. Questa mescolanza di terra e fuoco è anche un dato fisico, attestato nei Meteorologica di Aristotele, in cui si afferma: «I corpi composti di terra sono per lo più corpi caldi, a causa dell’attività del calore che li ha prodotti, ad esempio la calce e la cenere (tìtanos kaì téphra)».
A questo punto la descrizione di Olimpiodoro si fa inusuale… diventando chiaramente alchemica: «…dal denso fumo dei vapori che ne erano scaturiti si formò della materia da cui ebbero origine gli uomini». Il termine scelto per definire questa “materia” è aithálê, cioè vapore sublimato, non semplice cenere ma “caligine”, che addensandosi nell’aria diventa prima fuliggine poi vera e propria “sostanza”, depositandosi al suolo.
Una “polvere pirica”, però, in cui l’elemento igneo non è “spento”, ma continua ad essere attivo! Solo imprigionato nella consistenza della sostanza materiale. Ed è proprio così che è da intendere la “caduta” – tutta iniziatica – verso il mondo ctònio (pensiamo al mito di Euridice), in cui l’anima si fa occultus lapis. Una “pietra” non più solo materiale, bensì ontologicamente “ingravidata” dal Fuoco-Centro o Fuoco-Figlio (come vuole l’incestuosa descrizione alchemica).
Ma cos’è esattamente questo “Fuoco”? La risposta è semplice: è lo stesso princìpio dionisiaco inghiottito dai Titani prima di essere folgorati, il quale diventa la particella divina (la Shekhinah della Tradizione ebraica) incorporata nella “materia uomo”. Questo “fuoco segreto” degli alchimisti, non più visibile al calor di fiamma, è quel “fuoco filosofico” che, impastato nel furnus umano con l’aria, l’acqua e la terra, celato, attende…
Terra, acqua, aria e fuoco: i quattro elementi o principi fondamentali della fisica e dell’immaginario “scientifico” degli antichi, presenti tutti in un processo che prefigura l’immagine stessa della creazione, che è stata appunto un susseguirsi di riscaldamento e raffreddamento, fusione e rassodamento, fluido e solido… O ancora: di umido e secco nel rimescolamento di Mercurio e Zolfo, per riprendere l’esatta terminologia dell’Alchimia medievale e della sua “teoria dei misti”.
L’uomo, quindi, è divino (un dio mortale). Tema che sarà poi fatto proprio da tutta la Tradizione ermetica, fino agli autori rinascimentali.
Eccola, quindi, la nuova relìgio orfica, in grado di mutare radicalmente ogni relazione, ribaltando completamente la prospettiva sul mondo.
Se fino ad allora era stata la “gloria” il termine concettuale capace di far da ponte verso l’immortalità riservata alla sola classe aristocratica degli εὐπατρίδαι (gli unici che potessero permettersi il mestiere nobile delle armi), con l’orfismo questa possibilità viene estesa ad ogni uomo “abitato” dal suo suo δαίμων, ovviamente se in grado di risvegliarlo (Giovanni nel Prologo 1, 14 affermerà: «Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν» [«Il verbo … si attendò tra noi»], dimostrando nell’occasione una meravigliosa delicatezza espressiva).
Compito esistenziale di ogni individuo, allora, diventa proprio quello di coltivare questa opportunità. Ciò è possibile attraverso il bios orphikos, cioè le iniziazioni, gli atti di purificazione rituale e le condotte etiche adamantine proprie dell’Orfismo.
Il δαίμων è quel princìpio vitale capace di condurre la psyché (che è poi quello stesso princìpio) al di fuori del ciclo delle reincarnazioni, nel πληρωμα divino (come sarà affermato più tardi dagli gnostici).
Dalla coscienza etica alla responsabilità individuale
Se, come si è visto, l’anima è “caduta” sul piano della generazione ed il corpo ne costituisce un limite, mentre il piano multiforme delle esperienze duali è da interpretarsi come “luogo di espiazione”, ma anche di reminiscenza della propria vera origine, allora per l’anima diventa finalità primaria riprendersi la sua libertà nella forma più completa.
Questo significa che l’uomo con l’Orfismo ha un’unica possibilità, che è anche un imperativo: vivere una vita conforme alla Legge universale o divina e, conseguentemente, ritrovare la propria origine sovrasensibile. Le due cose sono legate inscindibilmente insieme.
Non può esserci altro scopo sul piano della generazione. Ogni altra faccenda non è che mera attività contingente, che serve solo a tenere in vita e perpetrare la nostra componente titanica (potremmo dire “minerale”, nel senso di “organica”), rappresentata dal nostro σῶμα, il corpo fisico.
Tutto ciò costituisce una vera e propria rivoluzione psicologica per i Greci, perché gli consegna una visione etico-filosofica completamente nuova: a tutta l’umanità è data, per la prima volta e per intero, la responsabilità del proprio destino.
Nella concezione omerica i più non hanno storia, non hanno futuro perché non hanno presente; con la visione misterica dell’Orfismo l’uomo diventa un’anima accessibile all’intelletto, con una responsabilità piena e precisa: il dovere immediato di educarsi, conoscersi, essere.
In una Laminetta orfica rinvenuta a Petelia (oggi nel territorio dell’odierna cittadina di Strongoli, in Provincia di Crotone) è detto che l’anima – infine – si ritroverà con gli altri eroi. In un’altra Laminetta, stavolta ritrovata a Turi (nelle vicinanze dell’antica Sybaris, l’odierna Sibari, in Calabria), si sostiene che da “ente umano” – l’uomo – rinascerà Dio, tanto che si dovrà essere “rallegrati” «nel prendere la strada a destra verso i sacri prati e i boschi di Persefone» (Laminetta di Turi, 4 / IV-III secolo a.C.).
L’orfico, per mezzo della teletè, cioè l’iniziazione mistica, si avvia al compimento di un radicale mutamento, nel quale rinasce nuovo Dioniso. Questo non perché acquisisca qualcosa di nuovo, ma perché riscopre – o rammenta – ciò che in fondo è già da sempre, giacché la sua anima promana dal divino. Questo porre l’identità tra anima e princìpio divino rivestirà un’importanza fondamentale per tutta la successiva vicenda della Tradizione iniziatica occidentale.
Ma come si fa ad uscire dal ciclo delle rinascite? Lo insegna ancora la Laminetta aurea di Petelia:
“Troverai a sinistra delle case di Ade una fonte, e accanto ad essa eretto un bianco cipresso: a questa fonte non avvicinarti neppure. Ma ne troverai un’altra, la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi i custodi. Di’: «Son figlia della Terra e del Cielo stellato: urania è la mia stirpe, e ciò sapete anche voi. Di sete son arsa e vengo meno: ma datemi presto la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne». Ed essi ti daranno da bere dalla fonte divina, e dopo di allora con gli altri eroi sarai sovrana. A Mnemosyne è sacro questo [testo], [per il mystes], quando è sul punto di morire … la tenebra che tutt’intorno si stende”
Questa iscrizione rassicura l’iniziato ai misteri che, una volta defunto e seguendo le elencate istruzioni, troverà facilmente la chiave per l’Aldilà.
Lo studioso di storia delle religioni Nuccio D’Anna, nel suo libro Da Orfeo a Pitagora. Dalle estasi arcaiche all’armonia cosmica, pagg. 108-109, pone in relazione il termine “fredda”, riferito all’acqua che scorre dal lago di Mnemosyne, con la base del termine “anima”, nel senso che quella che si intende non sarebbe una generica ed in sé insignificante “acqua rinfrescante”, che dovrebbe alleviare una inverosimile arsura dell’anima del morto, ma più esattamente un’“acqua che dà la vita”, simbolo dell’“l‘anima che rivive” o che “rinasce”.
In questo senso la Laminetta svolgerebbe un ruolo fondamentale: aiutare l’anima del defunto a rammentare quello che deve fare al suo arrivo nel mondo infero. Non ricordando, infatti, potrebbe commettere degli errori, come bere l’acqua della prima fonte presso il cipresso bianco, non recitare le formule corrette ai custodi dell’oltretomba, ricominciando così un’altra volta il ciclo vitale.
L’“oblio” deve quindi intendersi come quella condizione di ignoranza in cui si trovano gli uomini e le donne dopo la caduta dell’anima nel corpo, che il mystes può sperare di superare, già nel corso della propria vita, attraverso la “rimembranza”, che si esprime nella realizzazione di quelle condotte che vanno dalle iniziazioni al rifiuto del consumo di carne, dall’ascesi all’astinenza sessuale, alla non-violenza, in grado di concorrere a realizzare la suprema Conoscenza.
Platone riprenderà i concetti dell’oblio (λήθη) e della sua assenza (άλήθεια = non nascondimento, verità) per postulare la dottrina della conoscenza a priori, o quella innata dell’anima nei confronti delle Idee, che sono la causa universale degli oggetti sensibili (in altre parole, quel quid che v’è di eterno nelle cose).
Giovanni Reale, in Storia della filosofia antica, vol. I, ha avuto modo di notare che «senza l’Orfismo noi non spiegheremmo Pitagora, non Eraclito, non Empedocle, e, naturalmente, non Platone e quanto da lui deriva». Perché è proprio la sollecitazione della visione orfica a spingere il filosofo ateniese a far dire a Socrate, nel Fedone (99D), attraverso il celebre dialogo con Cebete, la frase: «mi diedi da fare nella seconda navigazione, alla ricerca della vera causa». In pratica, a intraprendere la via che lo porterà a scoprire il mondo del “sovrasensibile”.
Dalla responsabilità individuale all’ordine universale
Con la nuova metafisica orfica assistiamo dunque ad uno “sdoppiamento”: l’uomo è veduto come mortale, poiché composto dall’elemento titanico, ma contestualmente valutato come immortale, per via della sua parte divina. Quando i vincoli che legano la sua parte animica al corpo si allentano (e più di tutti con la morte), la psyché può finalmente “ritrovare se stessa”, a patto però di aver ricevuto – durante l’esperienza terrena – le giuste “stimolazioni”. Questa ricostruzione porta due conseguenze, entrambe rivoluzionarie: la nascita dei Sacri Misteri e la loro fondazione storica come culti religiosi; la riconduzione del Divino umano al Divino trascendente, che è la pietra d’angolo della Tradizione esoterica dell’umanità.
Perché si afferma questo? Perché la possibilità di immaginare un ordine umano universale in sintonia con le Leggi cosmiche della Natura acquisisce significato solo se tale evento è associato alla significatività morale dell’esistenza di ogni singolo individuo. Significatività nella quale va appunto ad innestarsi il tema della trasmigrazione delle anime.
Eric R. Dodds, nell’opera I Greci e l’irrazionale, afferma che: «Il castigo d’oltretomba non riusciva a spiegare perché gli dèi accettino l’esistenza del dolore umano, e in particolare quello immeritato degli innocenti. La reincarnazione invece la spiega; per essa non esistono anime innocenti, tutti scontano in vari gradi, colpe di varia gravità, commesse nelle vite anteriori. E tutta questa somma di sofferenze, in questo mondo e nell’altro, è solo una parte della lunga educazione dell’anima, che troverà il suo ultimo termine nella liberazione dal ciclo delle rinascite e nel ritorno dell’anima alla sua origine “divina”».
I dolori e le pene, in questo senso, non sono “inflitti” al soggetto trasmigrante da un dio cinico e crudele, e neppure devono essere intesi come un atto “vendicativo”, ma sono l’espressione compiuta di una ratio. La Vita non punisce e non premia alcuno, piuttosto ci si punisce da sé, come ci si premia da sé, a seconda del tipo di condotta, mentale o fisica, che si produce nel mondo.
Per questa Legge, che prende il nome di Legge di Adrasteia (dal nome di una ninfa generata da uno dei Cureti: Ἀδράστεια significa, letteralmente, inevitabile), «qualunque anima, trovandosi al seguito di un dio, abbia contemplato qualche verità, fino al prossimo periplo rimane immune da dolori, e se sarà in grado di far sempre lo stesso, rimarrà immune da mali» (Platone, Fedro, 247C), «perché quanto è stato da Adrasteia predisposto e stabilito è ineludibile; perciò, si dice anche che Ella faccia rumore davanti alla caverna della Notte: “bronzei cembali nelle mani ad Adrasteia diede”. Sulla soglia della caverna della Notte, infatti, si dice che emetta strepiti con i cembali perché tutto obbedisca ai suoi precetti. Dentro, nel santuario della Notte, sta seduto Phanes; in mezzo la Notte che fa vaticini per gli Dei; sulla soglia, invece, Adrasteia che stabilisce per tutti le Leggi divine. In quanto legislatrice è però diversa dalla Dike, che là giudica; Dike si dice figlia di Nomos [lo Spirito delle Leggi] ed Eusebeia [la Pietà], mentre questa Adrastea, figlia di Melisso e di Amaltea, è comprensiva anche di Nomos» (Ermia Alessandrino, Note al Fedro di Platone, 247C).
Bisogna constatare, quindi, che Adrasteia essendo inclusiva di Nomos le è superiore. Da ciò discende che mentre Δίκη (Dike) rappresenta quel tipo di Giustizia eminentemente sociale, che attribuisce a ciascuno secondo “legge di ragione”, Ἀδράστεια è da intendersi come “legge fisica” di azione-reazione, totalmente svincolata dalle considerazioni umane di ordine razionale.
Questo, tuttavia, non significa che essa sia per così dire “stabilita” una volta per tutte, giacché come tutte le leggi del “divenire”, cioè governate dal princìpio di causa-effetto, può essere neutralizzata attraverso una forza che le sia uguale e contraria: così l’odio è neutralizzato dall’amore, l’ignoranza dalla conoscenza, la violenza dalla mansuetudine, il vizio dall’ascesi.
Questo ordine etico universale ad un tempo sovrasta ed impegna la responsabilità individuale. Senza di esso non avrebbe senso la morale intesa come disciplina, quindi, non avrebbero significato le leggi umane, ma neppure potrebbero darsi la matematica, la geometria e la scienza in genere, poiché senza Adrasteia non vi sarebbe un cosmo ordinato ma il cháos. Ecco perché Ermia Alessandrino, come riferito, la colloca «sulla soglia della caverna della Notte», a governare l’intero procedere ontologico del mondo verso un fine, che poi è semplicemente quello di essere ciò che è.
«Io sono colui che sono!» (אהיה אשר אהיה) dice Dio a Mosè, sul Monte Sinai (Esodo, 3, 14). È l’Unità trascendentale dell’atto conoscitivo, che si dà nel momento stesso in cui si mantiene. In questo connubio apparentemente impossibile sta l’arcana arcanorum della Tradizione occulta, ed è sempre in questo “auto-riconoscimento” che sta il ruolo di Mnemosyne: capace di farci trascendere – attraverso un atto di reale integrazione – la nostra condizione immanente; Così come Orfeo trascende se stesso nell’ispirazione dionisiaca.
Orfeo ed Euridice: la palingenesi dell’anima
Il monaco ermetista benedettino Don Antonio-Giuseppe Pernety, riferendo del mito di Orfeo nell’opera Le favole egizie e greche svelate e riportate ad un unico fondamento, pubblicato a Parigi nel 1758, ha modo di notare che: «Euridice è la stessa cosa della fontana del Trevisano», riferendosi alla famosa fontana di cui parla l’alchimista padovano Bernardo da Treviso, nel Libro della filosofia naturale dei metalli del 1612, allegoria tra le più efficaci mai esposte della cottura filosofale.
Sebbene in questa sede sia impossibile ripercorrere analiticamente le varie fasi dell’Opus, è di interesse affermare che l’insieme delle operazioni alchemiche mira ad un solo risultato: corporificare lo Spirito. Questo Spirito è il creatore e rettore del mondo, profusa in esso è quella che gli umanisti rinascimentali chiamano “anima universale”, di cui le anime umane non sono che “accidenta”. Ora, perché mai il fine ultimo dovrebbe essere quello di corporificare lo Spirito, anziché, come sembrerebbe più rispondente ad un criterio logico, sublimare o “purificare” la materia? Lo abbiamo riferito prima, a proposito dell’atto conoscitivo. Ma vediamo ora meglio nel mito.
Il racconto è quello noto: Orfeo ama la ninfa Euridice ricambiato, questa però – per la sua grande avvenenza – fa ardere il cuore di Aristeo, inventore dell’apicoltura, che tenta di sedurla. La fanciulla per sfuggire alle insistenze del giovane e restare fedele ad Orfeo si mette a correre tra l’erba alta, qua calpesta un serpente che la morsica, provocandone istantaneamente la morte. Orfeo, impazzito dal dolore – non riuscendo a concepire la sua vita senza Euridice – decide di scendere nell’oltretomba; quindi, tramite la musica che era in grado di comporre con la Cetra, convince Caronte a traghettarlo sull’altra riva dello Stige, ottenendo libero accesso anche dagli altri Guardiani dei morti, primo tra tutti il cane Cerbero. Infine, giunto di fronte a Ade e Persefone li convince a restituirgli Euridice.
Così Ovidio nel Libro Decimo de Le metamorfosi: «Né ebbero cuore, regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera, e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava, e venne avanti con passo reso lento dalla ferita. Orfeo del Ròdope [monte della Tracia], prendendola per mano, ricevette l’ordine di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono. In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile. E ormai non erano lontani dalla superficie della terra, quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla, l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno; cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata, ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente».
A questo punto Orfeo viene ricacciato senz’altra possibilità alla vita. Qua il mito si sfrangia, ma ai nostri fini è stato detto tutto. La discesa agli inferi è un grande τόπος simbolico. appartenente a tutte le tradizioni iniziatiche; per esempio, a quella sumera (con Inanna), a quella assiro/babilonese (con Ištar), persino alla Tradizione cristiana, con la discesa nell’oltretomba dello stesso Gesù (che costituisce uno degli articoli di fede del “Simbolo Apostolico”). Inoltre, questa κατάβασις è l’Opera al nero dell’Ermetismo. Gli “inferi”, invece, non sono altro che il subconscio individuale e collettivo.
Tornando a Dom Pernety, egli afferma che Orfeo chiama Euridice «la sua opra sposa» (pag. 293, Ed. F.lli Laterza & Polo, Bari, 1936)… Siamo quindi di fronte ad Orfeo, ovvero l’anima universale, che, attraverso la discesa nella sostanza-materia ctònia, cerca di recuperare Euridice, cioè la sua “opera” (il riflesso di sé), per riportarla alla luce del Sole, di cui ella è figlia (come lui, in quanto sono la stessa cosa).
Euridice è “morta” non perché abbia commesso una colpa, ma perché è stata inghiottita da quelle forze titaniche cui è stata consegnata, tramite il morso del serpente, dalla voluttà di Aristeo, cioè dalla forza dell’eros (il serpente che si attorciglia intorno al proprio centro).
Nel testo alchemico che va sotto in nome di Rosarium philosophorum (attribuito al medico Arnaldo da Villanova), nella didascalia della IX illustrazione alla prima edizione (pubblicata a Francoforte nel 1550), è detto: «Qui l’acqua discende dall’alto / E fa rivivere il corpo putrefatto». Cosa ciò significhi si chiarisce nei versi che accompagnano il disegno successivo: «E nella mia essenza sono così costituita / Che mio figlio potrebbe diventare mio padre»…
Ora mettiamo insieme le diverse tessere: Euridice si trova nell’Ade perché ha fatto l’esperienza (erotica) della congiunzione con la sostanza-materia (si tratta a tutti gli effetti di una ierogamia), questa condizione l’ha portata alla “morte”, che configura la dimenticanza di ciò che ella è in realtà, cioè un tutt’uno con l’anima mundi. Questa condizione ha cristallizzato delle energie (idee, emozioni, desideri, aspettative, comportamenti, etc.) che è necessario siano riconquistate dallo Spirito che Orfeo personifica: è appunto in questo senso che le energie di cui ella è “madre” possono rigenerarla come “figlia”.
Orfeo, tuttavia, sembra non portare a termine il compito, risolvendosi il suo viaggio in un fallimento. Ma è davvero così?
Cesare Pavese nei Dialoghi con Leucò (1947) elabora una rappresentazione del mito in cui il dramma esistenziale dell’anima prende una piega differente. Ne L’inconsolabile, uno dei dialoghi più noti e profondi, Pavese presenta un Orfeo che sostiene di essersi voltato volontariamente a guardare Euridice, scegliendo ad un certo punto scientemente di “perderla”: ridicolo, infatti, sarebbe stato voltarsi per un errore.
Per lo scrittore piemontese Orfeo crede di cercare Euridice nell’oltretomba, ma in realtà sta cercando se stesso attraverso Euridice. O meglio, se stesso tramite l’esperienza che Euridice ha fatto della separazione dall’Uno verso il molteplice e mutevole divenire del mondo: «Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai». “Perdere” Euridice, per Orfeo, è l’unico modo di “conoscere” questo fluire e la trasformazione che ne consegue, appropriandosene. È così che egli sconfigge la morte, con la consapevolezza. Raggiunta questa può ripercorre in senso inverso il cammino compiuto dall’amata, riallacciando il suo passato divino al proprio futuro.
L’Uomo immortale che ne scaturisce è lo Spirito corporificato della grande Tradizione alchemica, mentre il lapis philosophorum “fissa” il ritorno all’Uno delle idee-forma prodotte da ogni singolo atto di conoscenza. Queste energie (mercuriali), ricondotte all’identità originaria del Tutto (ignificate dallo Zolfo), divengono Fondamento di ogni Verità (perciò ricordare equivale a comprendere: preconoscenza), e si inseriscono direttamente in quella Legge universale di ordine etico già definita.
Siffatti, mentre Orfeo si avvia a compiere il proprio destino nell’ennesimo σπαραγμός, facendosi vittima sacrificale per le Baccanti, e così garante dell’eterno divenire dell’Immutabile, un masso scostato rotola giù dal Sepolcro…
Là dove ogni cosa vile è trasmutata in oro puro (moltiplicatio), il maestro Hiram – che rappresenta la Coscienza Universale – risorge senza più l’ausilio delle Tre Luci, e in piedi sulle sue gambe, avvolto dal mantello rosso simbolo della Rubedo, annuncia – ai soli iniziati – il compimento della Grande Opera.